Umberto Eco è uno degli autori più implicati dal quel genere di riflessioni sul ruolo del lettore nell’ambito della testualità, non solo letteraria, poste al centro dell’insegnamento che presento quest’anno per il corso di laurea triennale in Comunicazione dell’Università di Pavia (Social reading: da aNobii alla twitteratura).
Dobbiamo essere giusti con Eco, riconoscendo la posizione originale e lungimirante che lo distinse entro un dibattito quasi ventennale. Dibattito inaugurato nel 1962 proprio da lui, con Opera aperta. Forma e interpretazione nelle poetiche contemporanee, e portato in qualche modo a compimento nel 1979 da un altro suo libro: Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi. In mezzo, fra il 1962 e il 1979, ci sono tante cose: la contestazione di alcuni dogmi dell’ortodossia strutturalista di matrice francese da parte dello stesso Eco e la reazione indignata a tale contestazione, il formalismo russo, le provocazioni neoavanguardistiche del Gruppo 63, infine la “scoperta” della semiotica del testo e della pragmatica testuale, che fornirono a Eco un quadro teorico solido entro cui iscrivere il problema del lettore.
In sintesi, possiamo identificare tre snodi del ragionamento di Eco che si offrono oggi alla nostra riflessione con inesausta ricchezza di prospettive.
Il primo punto riguarda il rapporto tra la sostanza del testo e la libertà del lettore. Eco parla talvolta di forma, e in altri casi di struttura. Mentre la forma è l’oggetto concreto del testo, la struttura è il sistema di relazioni che si instaurano fra i suoi livelli: grammaticale, emotivo, ideologico. Ebbene – ci fa comprendere la linguistica pragmatica – il testo ha una propria forma oggettiva, che tuttavia invoca l’intervento interpretativo del destinatario per poter funzionare. La superficie del significante non coincide con la verità del testo. Tale verità risulta semmai dall’impresa cooperativa di testo e lettore. La forma, nella sua oggettività, non dice tutto:
“[Il testo] è un meccanismo pigro […] che vive sul plusvalore di senso introdottovi dal destinatario. […] Vuole lasciare al lettore l’iniziativa interpretativa, anche se di solito desidera essere interpretato con un margine sufficiente di univocità. Un testo vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare.” (Lector in fabula, p. 52)
Qui si contesta l’idea, cara allo strutturalismo francese di prima maniera, secondo la quale il testo sarebbe un oggetto rigido (“con la rigidezza di un cristallo”, secondo la nota definizione di Claude Lévi-Strauss). La struttura del testo – obietta Eco – si attiva semmai attraverso l’apporto di chi la analizza. Essa rimanda al rapporto fruitivo, più che all’oggettività del testo. E dunque la lettura non si riduce alla scoperta di proprietà predefinite, ma comporta un contributo del destinatario. Sono le congetture e interpretazioni del lettore a mettere in moto il testo. In definitiva c’è una dialettica di questo tipo: da un lato abbiamo un libero intervento interpretativo, dall’altro caratteristiche strutturali che regolano l’ordine delle interpretazioni. Al testo non si può fare dire ciò che si vuole, ma gli si deve far dire ciò anche che non dice in modo esplicito (ma presuppone o implica).
Ma di quali testi stiamo parlando? Di tutti, o in modo specifico di quelli dotati di finalità artistiche? E in che modo riusciamo a discriminare gli uni dagli altri? Che cosa fa di un testo un’opera letteraria? È questo il secondo snodo del ragionamento di Eco che è giusto richiamare oggi.
Tanto per cominciare già in Opera aperta si chiarisce che l’apertura, intesa come ambiguità del messaggio e autonomia concessa all’interprete, non è prerogativa di specifiche forme creative. Essa – viene detto nell’introduzione alla seconda edizione (1967) – “è una costante di ogni opera in ogni tempo”. Di più: i testi che definiamo “aperti” sono solo “l’esempio più provocante di sfruttamento, a fini estetici, di un principio che regola sia la generazione che l’interpretazione di ogni tipo di testo” (Lector in fabula). Del resto proprio la linguistica testuale ci ha insegnato che la comprensione di qualsiasi testo avviene nell’universo del discorso, e non a livello di singola parola o frase. La definizione del senso di un testo muove da qualcosa che precede il discorso, ma che si sviluppa nel discorso: le circostanze dell’enunciazione, le presupposizioni dell’interprete, il lavoro inferenziale di interpretazione del testo, il rapporto con altri testi.
Né dedurremo una indistinzione di fondo fra testi letterari e altri tipi di testo? Eco sembra propendere per l’idea che l’oggetto artistico sia riconoscibile fra altri, nella misura in cui le sue strutture documentano un’intenzione operativa, un progetto estetico. Nell’ambito del mio corso discuterò questa idea, che mi appare per certi versi problematica. Un’altra distinzione importante è quella fra testi narrativi e testi non narrativi. Lector in fabula costruisce una teoria della cooperazione interpretativa applicata ai testi narrativi, perché – suggerisce lo stesso Eco – sono quelli più complessi e semioticamente più ricchi di problemi.
Il terzo punto che mi sembra rilevante nel percorso critico di Eco, riguarda l’estensione del modello dell’opera aperta dal dominio delle poetiche a quello della cultura in generale. Nella prospettiva di Eco il modello dell’opera aperta è una forma comune a molti fenomeni. Per meglio dire si offre come una metafora epistemologica per altri ambiti dell’esperienza umana, dalle scienze alle strutture sociali:
“L’opera si propone come una struttura aperta che riproduce l’ambiguità dello stesso nostro essere-nel-mondo: quale almeno ce lo descrive la scienza, la filosofia, la psicologia, la sociologia.” (Opera aperta, p. 283)
C’è molta ideologia in questa chiosa del filosofo e semiologo recentemente scomparso. Quell’ideologia di cui avvertiamo oggi, in modo struggente, una forte mancanza.