«Morning, boys, how’s the water?» Dove si parla di media, arte, letteratura e informazione, e del loro rapporto con la tecnologia
«The water is the media» viene da dire, parafrasando Marshall McLuhan. Il punto non è sentirsi un pesce fuor d’acqua. Il punto, oggi, è essere pesci nell’acqua e non accorgersene. Un po’ come i due pesci della storiella che David Foster Wallace raccontò ai neolaureati del Kenyon College, nel 2005. Pesci ai quali viene chiesto com’è l’acqua in cui stanno nuotando e che rispondono: «Che diavolo è l’acqua?» I media si sono presi tutto il nostro tempo e il nostro spazio, fino a sovrapporsi al mondo. Oggi viviamo immersi in essi. I media si presentano non tanto come veicoli di messaggi, ma piuttosto come ambienti e come estensioni di noi stessi. Il programma, oggi più che mai, mi sembra essere quello di una critica umanistica ai media e alla tecnologia, una critica cioè che esca dalle secche metafistiche dell’umanesimo, nel tentativo di verificare quali spazi esistano per una nuova forma di addomesticamento umanistico e per la libera scelta dell’individuo nella tecnosfera globale.
Esercizio reso complesso proprio dalla circostanza inedita in cui ci troviamo e in cui si muovono i media contemporanei.
Velocità di fuga
La velocità di fuga delle nuove tecnologie supera quella della nostra capacità di elaborazione simbolica e ci sottopone a un costante tech-leg. D’altronde è alterata la percezione stessa della realtà: a quella in atto, materiale, atomica, corrispondono infinite realtà in potenza, virtuali, aumentate. Ma proprio questi vincoli rappresentano, al tempo stesso e per paradosso, il nostro vantaggio competitivo nei confronti delle tecnologie. Lo stato della tecnologia è per definizione provvisorio e quindi obsoleto. Ciò che si salva, in questa obsolescenza, è l’individuo. Un individuo che si vorrebbe nuovo, capace di esplorare futuri inauditi e di selezionare possibilità. Ma che, per ora, è solo un individuo confuso.
Il disagio della tecnologia
I mezzi di comunicazione nati dall’avvento dell’informatica di massa si presentano con una duplice valenza. Da un lato hanno caratteristiche di versatilità, usabilità e amichevolezza inedite, tali da renderli insostituibili compagni delle nostre esistenze. Dall’altro ci turbano per la loro potenza e la loro autonomia: sono tanto facili da usare, quanto difficili da comprendere. Per questo le nuove tecnologie non solo incidono profondamente nella vita dell’individuo, ma lo occupano in quanto soggetto. Sono tecnologie che accogliamo volentieri nel nostro spazio. Esse divengono così familiari da rendersi invisibili. Da elementi dell’habitat si trasformano in elementi dell’habitus. Eppure, sono destinate a restare in qualche modo entità “straniere”.
Contro il determinismo tecnologico
C’è una malintesa distinzione fra ciò che è naturale (l’essere umano) e ciò che si presenza come artificiale (la tecnologia). Quasi che la tecnologia fosse una realtà trascendente e non «il modo naturale dell’umanità di essere al mondo». L’essere umano – osserva Melvin Kranzberg – è alla base di ogni processo tecnologico. E nella tecnologia possiamo riconoscere i segni di un’attività squisitamente umana («technology is a very human activity»), da cui originano lo sviluppo linguistico e il pensiero astratto.
Il determinismo tecnologico è purtroppo ancora imperante. Sorpavvive l’idea che la tecnologia “abbia impatto” sulla società, come un martello impatta su un chiodo. Io ritengo semmai che lo sviluppo tecnologico e le pratiche sociali si co-determinino. «Le battaglie-chiave si combattono adesso. Se ci concentriamo sulla tecnologia, lo scontro sarà perso prima ancora di cominciare a lottare. Dobbiamo confrontarci con le regole sociali, culturali e politiche che circondano il paesaggio tecnologico e ne definiscono le modalità d’uso.» (Henry Jenkins)
In più, una serie di informazioni pratiche sui miei insegnamenti all’Università di Pavia e a Raffles Milano Istituto Moda e Design, oltre a una guida alla preparazione della tesi di laurea per gli studenti.