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Tempo e finzione in Twitter

In che modo tempo e finzione si manifestano in Twitter? Rispondere a questo interrogativo è essenziale, se vogliamo investigare le potenzialità di Twitter come setting terapeutico. Propongo qui alcune possibili chiavi di lettura, partendo non dalla psicologia o dalla psichiatria clinica, né dalla filosofia, ma dalla teoria letteraria. In fondo, il setting terapeutico è il luogo in cui si svolge un racconto. La cura del soggetto passa attraverso la narrazione di sé. Dunque un approccio narratologico può forse essere di qualche aiuto.

la domanda che ci poniamo è se le reti sociali online siano piattaforme narrative. Dobbiamo chiederci, cioè, se i social network siano il luogo nuovo – o uno dei luoghi – in cui il soggetto si narra. O se non siano, al contrario, il luogo in cui il soggetto rinuncia al racconto di sé, in quanto si annulla in una folla. Questa è chiaramente una prospettiva apocalittica, che continua però a trovare autorevoli sostenitori. Si veda, per esempio, il saggio di Byung-Chul Han Im Schwarm, uscito in Germania nel 2013 e recentissimamente tradotto da Federica Buongiorno per Nottetempo (Nello sciame. Visioni del digitale, Roma, 2015).

La conclusione a cui giungo è problematica, soprattutto per quanto riguarda la dimensione del tempo. Su Twitter il tempo lineare si frammenta e si addensa in un presente assoluto. Vedo invece il grande potenziale di Twitter come spazio performativo dell’identità: identità plurime, fittizie, interpretate. Twitter come luogo del fake terapeutico.

Il tempo senza profondità

Com’è noto, il racconto è una sequenza doppiamente temporale. C’è il tempo della cosa raccontata, ovvero della storia (il significato). E c’è il tempo della narrazione, ossia dell’atto di raccontare (il significante). Gérard Genette ha osservato che la relazione fra temps de l’histoire e temps du récit si presta a essere considerato secondo tre prospettive: ordine, durata e frequenza.

Le prime due prospettive risultano abbastanza chiare. Le cose non sono sempre riferite nell’ordine in cui si sono svolte. Nell’atto di raccontare possiamo tornare indietro rispetto al punto raggiunto dalla storia (analessi o flashback), oppure fare dei salti in avanti (prolessi). È altrettanto noto che il rapporto fra durata della storia e durata della narrazione può variare notevolmente. Per esempio James Joyce, nel suo Ulysses, dedica centinaia di pagine a descrivere una sola giornata della vita di Leopold Bloom, mentre a Stanley Kubrik, nel film 2001: A Space Odyssey, bastano pochi minuti per sintetizzare una vicenda di milioni di anni. La prospettiva della frequenza è meno evidente ma altrettanto importante. Si tratta del fatto che uno stesso avvenimento può accadere più di una volta (per esempio il sorgere del sole, o l’arrivo del treno Milano-Roma delle otto), così come può essere raccontato più di una volta. Parliamo insomma delle ripetizioni – della storia o del racconto.

In ogni caso la narrazione sembra presupporre una traiettoria, ovvero una trasformazione dotata di senso e velocità. Narrare significa collocare espressioni linguistiche in una sequenza temporale determinata, la quale sta in rapporto con un’altra sequenza temporale: quella dei referenti designati da tali espressioni. Narrare è camminare, percorrere, condurre attraverso (il sostantivo greco διγησις “racconto”, è composto di διά “attraverso” e ἡγομαι “condurre, guidare”).

Ma che cosa succede se il supporto in cui collochiamo la nostra enunciazione si rivela inadatto a sostenere l’ordine del racconto, e quindi finisce per renderlo irriconoscibile? Questa enunciazione non rischia forse di fallire? Per venire al punto: Twitter è il dispositivo più indicato per chi voglia guidare il proprio interlocutore attraverso il tempo? Per rispondere a questa domanda occorre considerare la natura della cosiddetta timeline, ossia l’interfaccia all’interno della quale i tweet scorrono davanti agli occhi dell’utente.

A dispetto della denominazione (“linea del tempo”), la timeline è puro presente. È una macchina teatrale governata dalla regola della perdita: ciò che appare nella timeline va consumato subito, prima che si dissipi. Non c’è profondità cronologica, non c’è movimento diegetico. Il movimento è senza direzione, come l’acqua di Eraclito: “si disperde e si raccoglie, viene e va.” (Sulla natura, 91DK). Twitter è ritmo, non trama.

Di questo problema si è accorta Jennifer Egan, che nel 2012 tentò un interessante ma poco riuscito esperimento letterario con il suo racconto seriale The Black Box. Il testo apparve a puntate sotto forma di serie di tweet.

Sono invece più riusciti i progetti “narrativi” su Twitter in cui si rinuncia alla verticalità diegetica e si lavora sulla prospettiva orizzontale che il mezzo dischiude. Interessante in quest’ottica l’esperimento di Elliott Holt, una delle protagoniste del Twitter Fiction Festival del 2012. Holt propose una traccia narrativa di base (la morte di una donna in un hotel di Manhattan) e disseminò indizi attraverso tre account finzionali, i quali offrivano altrettanti punti di vista sulla vicenda. Gli sviluppi del racconto erano seguiti e arricchiti dal pubblico su Twitter attraverso tre hashtag, che corrispondevano alle tre ipotesi narrative di partenza. Il materiale venne così sviluppandosi, anche con il contributo dei lettori, più lungo la dimensione orizzontale, fatta di ipotesi alternative, che lungo quella verticale, di tipo diegetico.

Dunque dobbiamo rassegnarci all’idea che Twitter sia – per usare ancora le parole di Byung-Chul Han – un medium “additivo, non narrativo”? Se le cose stessero in questo modo, ne concluderemmo che Twitter non è il supporto adatto alla cura del soggetto agita attraverso la narrazione di sé. Si tratta di capire se il racconto di sé debba necessariamente assumere una forma diegetica, intesa come lavoro sul tempo.

Magari non è così. Forse può esistere una narrazione senza intreccio, che procede liquidamente per flussi di coscienza. Questi sono flutti, cioè si muovono come le onde del mare, come l’acqua di Eraclito che viene e va. Qui è chiaro che sto alludendo allo stream of consciousness di una scrittrice come Virginia Woolf. E mi sto riferendo, in particolare, all’operazione portata a termine con il romanzo The Waves (Le onde), del 1931. È un testo, quello della Woolf, costruito sul ritmo di un movimento ripetitivo, che non porta in alcun luogo: traboccamenti psichici, risacche della coscienza, soliloqui incalzanti che procedono per apposizioni e forme perifrastiche.

Leggiamo la prima serie di soliloqui del romanzo (traduzione a cura di Nadia Fusini, Einaudi, Torino, 2014, p. 4) e confrontiamola con l’aspetto caratteristico della timeline di Twitter:

“Vedo un cerchio – disse Bernard, – che pende sulla mia testa. Oscilla e pende in un anello di luce”.

“Vedo una macchia gialla – disse Susan, – che si allarga finché incontra una striscia viola”.

“Sento un suono – disse Rhoda, – cip, cip, cip, cip; più forte, più piano”.

“Vedo un globo sospeso – disse Neville, – che goccia sui fianchi enormi della collina”.

“Vedo una nappa rosso cremisi – disse Jinny, – intrecciata di fili d’oro”.

Ciascun atto di parola è un fiotto interiore (raramente superiore ai 140 caratteri di lunghezza: la misura di un tweet) che si dà per la sua valenza ritmica. Non c’è trama, non c’è diegesi. Verso quali territori di senso può portare una siffatta narrazione? Twitter può essere un dispositivo adatto a contenerla?

Sospensione dell’incredulità

C’è poi il tema della finzione. Parto da due significative raccomandazioni in cui mi sono imbattuto quasi per caso e che si leggono nel manuale di Pietro Vigorelli, di recente pubblicazione, Alzheimer. Come favorire la comunicazione nella vita quotidiana (Franco Angeli, Milano, 2015):

  • Tenere presente che i messaggi inviati dall’anziano nascono dalle sue identità molteplici
  • Tenere presente che i messaggi inviati dall’anziano nascono da altri mondi possibili

Vigorelli sembra qui formulare al caregiver quella raccomandazione che, implicitamente, ogni opera di finzione si porta dietro: l’invito a non contestare le premesse false del racconto, il quale è per definizione prodotto dalla fantasia del narratore. Cogliamo insomma l’eco di un concetto-chiave per la teoria della letteratura, introdotto in epoca romantica da Coleridge: la sospensione dell’incredulità (“suspension of disbelief”). La fede nella poesia – osserva il letterato inglese nella sua Biographia Literaria – nasce dalla disponibilità a mettere momentaneamente da parte la nostra incredulità per un mondo innaturale, ancorché dotato di una parvenza di vero:

It was agreed, that my endeavours should be directed to persons and characters supernatural, or at least romantic, yet so as to transfer from our inward nature a human interest and a semblance of truth sufficient to procure for these shadows of imagination that willing suspension of disbelief for the moment, which constitutes poetic faith.

La sospensione dell’incredulità non è permanente. La sua durata corrisponde alla lettura del testo. Inoltre si tratta di un atto volontario (“willing”): non è per ingenuità, ma per scelta, che crediamo al sovrannaturale e romanzesco che costituiscono lo specifico letterario.

Come un’opera letteraria, dunque, anche il racconto della persona sofferente e forse qualunque forma di autobiografia non sono riproduzioni fedeli della realtà, ma il risultato di progetti narrativi più o meno consapevoli, che comportano tagli, aggiunte, censure e modifiche rispetto al mondo reale. Decodificare tale racconto significa accettarne la natura di mondo possibile e accogliere i personaggi che lo agiscono, come se fossero identità reali. Il fake non è un problema, ma una risorsa.

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