L’esperienza in realtà virtuale che Ultra presenta alla Milano Design Week 2023 ci parla di anomalie visive, trucchi ottici e artifici dello sguardo. E ci racconta una storia antica come la percezione, ma anche nuova.
Si intitola L’inganno dei sensi l’esperienza immersiva realizzata da Ultra per il Fuorisalone milanese di quest’anno. Un’esperienza tutta da provare, accompagnati dal bravo Giovanni Longhin, attore della compagnia Teatro dei Gordi. O, per meglio dire, dalla voce e dai movimenti del suo avatar. E questo è già il primo inganno. La recitazione è sempre interpretazione di una parte e quindi, in un certo senso, capacità di assumere identità diverse. Ma recitare non è, meramente, un “fare finta”. Quello dell’attore è semmai un lavoro di trasformazione e di valorizzazione della propria identità. Dunque, che cos’è finto e che cos’è vero nell’avatar agito dall’attore?
In principio fu la lanterna magica
L’inganno dei sensi di Ultra è un invito a considerare un continuum nella storia della percezione visiva, costellata da strategie illusionistiche al servizio della meraviglia, le quali non nascono certo con l’invenzione dei visori 3D. Basti pensare alle lanterne magiche, già diffuse in Europa nel XVII secolo e importate probabilmente dalla Cina attraverso il mondo arabo. Oppure a quell’autentica macchina scenografica costituita dal panorama, inventato nel 1787 dal pittore scozzese Robert Barker: una grande opera circolare esposta in una rotonda in modo che lo spettatore possa guardarla da una piattaforma eretta al centro dell’edificio che la ospita, immergendosi nell’immagine circostante a 360 gradi.
Dipinto panoramico di una spiaggia dell’artista dell’800 Hendrik Willem Mesdag (Den Haag, Paesi Bassi).
Non bisogna attendere insomma la fotografia e il cinema, per accorgerci che agenti artificiali – costituiti da lenti, specchi, proiettori – contribuiscono a orientare la nostra visione e a ingannarla. Forse l’inganno di maggiore successo è il modo di rappresentazione dello spazio messo a punto da Filippo Brunelleschi con l’invenzione della prospettiva rinascimentale. Fino agli effetti parossistici della finta cupola dipinta da Andrea Pozzo nella Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio, a Roma (1685).
Andrea Pozzo, finta cupola della Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio (Roma, 1685)
Nel caso della prospettiva, si direbbe, non c’è alcun apparato tecnologico a mediare fra noi e l’immagine. A ingannarci è l’immagine stessa, apparecchiata per essere oggetto della percezione visiva e lavorare sui pregiudizi della nostra mente (per esempio: se due oggetti uguali hanno dimensioni diverse, quello più piccolo deve per forza essere, fra i due, il più distante dai nostri occhi). In realtà la pittura stessa è una tecnologia, e come tale agisce in quanto medium che si interpone fra noi e la realtà. In questo senso il prodotto della pittura – l’immagine – non deve essere mai confuso con la cosa rappresentata.
Ceci n’est pas une pipe
Come argomentava René Magritte con malcelata ironia, «l’immagine pittorica di una fetta di pane con marmellata, sicuramente, non è né una fetta di pane vera né una fetta di pane finta» (Le parole e le immagini, in Tutti gli scritti, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 53). Lo stesso Magritte che, a proposito del suo La trahison des images, ebbe modo di osservare: «Perché questa non è una pipa? Beh, uh… perché è una pipa dipinta, non una pipa vera» (Intervista per Life, 1966, in Tutti gli scritti, cit., p. 528).
René Magritte, La Trahison des images, 1929 (Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles CA)
In ogni caso anche la tecnica della prospettiva si portò dietro l’uso di diversi apparati, concepiti per supportare il lavoro dell’artista. Le prime macchine prospettiche furono descritte da Leon Battista Alberti già nel De Pictura (1435). Per inquadrare il soggetto da dipingere, Alberti suggeriva l’uso di un velo quadrettato, montato su un telaio di legno. Leonardo da Vinci lo sostituì con un vetro, mentre Albrecht Dürer aggiunse un miraglio a forma di obelisco per fissare la posizione dell’occhio. Fino ad arrivare alle camere oscure abitualmente impiegate dal Canaletto per realizzare le sue vedute.
Certo, gli inganni che siamo in grado di apparecchiare oggi con la tecnologia della realtà virtuale ci appaiono molto più sofisticati rispetto a quelli del passato. Tuttavia, c’è una continuità fra la lanterna magica e i visori VR di ultima generazione. C’è il comune bisogno di sfidare l’insieme delle nostre strutture sensoriali e percettive, che è poi il nucleo di ogni esperienza estetica. Nulla di nuovo sotto il sole, dunque? Fino a un certo punto. L’operazione di Ultra ci suggerisce due ordini di riflessioni.
Il dato non esiste
La prima riflessione riguarda l’idea che l’inganno, o comunque la deviazione, non deve essere considerato un’anomalia rispetto alle condizioni percettive normali. Esso costituisce semmai la regola. Perché, prima della tecnologia, a ingannarci sono i nostri stessi sensi. E proprio per questo non dovremmo fidarci di ciò che è “dato”, ossia di quanto si presenta immediatamente alla nostra coscienza, proveniente dall’esterno e reso dai sensi prima di ogni forma di elaborazione intellettiva. Non esiste un grado zero della percezione visiva.
I processi percettivi non mostrano sempre lo stesso mondo, secondo la nota obiezione di Edmund Husserl: «innanzitutto, oggetti identici e immutati assumono ora un aspetto ora un altro, a seconda delle mutevoli circostanze. Una stessa forma immutata ha un aspetto mutevole, a seconda della sua posizione rispetto al mio corpo proprio; essa appare attraverso mutevoli aspetti i quali “la” rappresentano in modo più o meno “favorevole”.» (Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino, Einaudi, 1970, p. 455).
La seconda considerazione riguarda il ruolo nuovo assunto, in questo contesto, dalla tecnologia a partire dall’affermazione della cultura del software e del paradigma digitale. Perché il software è dotato di una sua agency, ossia di una capacità di agire nel mondo. Il che ci suggerisce la possibilità di una collaborazione inedita fra artista e software. E incoraggia l’ipotesi che un’opera progettata per emergere dalla collaborazione di agenti diversi, di cui uno artificiale, sia ugualmente e forse ancor più creativa.
Persone impegnate nell’esperienza immersiva L’inganno dei sensi, realizzata da Ultra.
Il punto è che la macchina ha le sue prerogative, ossia legge la realtà in modo diverso rispetto a noi esseri umani, in quanto elabora un universo di informazioni fuori dalla nostra portata. Ciò le consente di presidiare uno spazio enunciazionale specifico, ossia di porsi come soggetto di un’enunciazione altrimenti non esperibile. La dialettica fra immagine tecnica – nella quale si manifesta la agency del software – e strategia individuale sta forse producendo un nuovo modello di engagement: una nuova tecno-estetica.
Andiamo Ultra
È l’evoluzione dell’immagine tecnica teorizzata da Vilém Flusser; l’immagine, cioè, prodotta da apparecchi che noi scambiamo per i nostri occhi e ai quali attribuiamo un’oggettività illusoria. Non pensiamo solo alla potenza delle reti neurali artificiali, come Midjourney, ma anche a quella di certi sensori. È il caso, per esempio, dell’imaging plenottico, ovvero della registrazione del campo luminoso di una scena mediante una matrice di microlenti.
Le immagini tecniche di Ultra caricano la vita di una nuova magia, che però è iscritta nelle sue potenzialità e dunque situata. La realtà virtuale non stupisce più nel modo in cui lo facevano la prospettiva, la lanterna magica e il panorama, attraverso una finta verosimiglianza. Le nuove macchine per l’inganno dei sensi sono in grado di costruire un effetto visivo privo di qualsiasi riferimento iconografico.
La circostanza era stata preconizzata, con grande lucidità, già da Gillo Dorfles in una delle sue interessanti riflessioni sul ruolo della tecnologia nell’arte di fine Novecento: «Le bizzarrie ottiche, i trompe-l’œil, hanno sempre avuto presa sull’immagine azione umana sin dai tempi più remoti; ma per solito accompagnandosi (come nel caso delle anamorfosi rinascimentali, o nelle prospettive paradossali barocche) dalla preoccupazione di raggiungere una determinata raffigurazione ad absurdum. Oggi, divenuto meno imperativo l’aspetto iconologico, assistiamo all’avvento di numerose forme espressive in cui si ricerca piuttosto il metodo per condurre ad un fine visuale, che l’espressione da tale fine suscitata.» (Tecnologia, oggettualità e spaesamento alla XXXIII Biennale, in Il divenire della critica, Torino, Einaudi, 1976, p. 117).