Giornalismo e ipertelevisione

Comincio con questo post la pubblicazione dei materiali che presenterò all’Università di Pavia nell’ambito del corso su Giornalismo e ipertelevisione. Il corso proseguirà per tutto il mese di marzo.

Che senso ha occuparsi di televisione, nel momento in cui c’è chi ne proclama lo stato comatoso? Per Federico Rampini “La tv è moribonda. L’agonia avviene così in fretta che non ci sarà il tempo per celebrarne i funerali.” (la Repubblica, 8 febbraio 2012) La televisione si estingue e i suoi contenuti si trasferiscono su Internet. In breve tempo, lo spazio occupato dai grandi network televisivi sarà appannaggio di YouTube, Apple e Netflix. Quest’ultima, appena sbarcata nel Regno Unito, annovera già più di due milioni di clienti (oltre 22 negli USA). E YouTube investe 100 milioni di dollari in produzioni originali, alleandosi con content provider del calibro di Disney e Reuters.

Il nostro corso muove da una prospettiva diversa, che si basa su una constatazione e su una scommessa.

La constatazione è che, fra i media di informazione (news media), la televisione conserva un ruolo decisivo. Non solo in Italia, ma anche negli Stati Uniti essa resta la fonte principale di informazione e orientamento politico dell’opinione pubblica, nonostante lo spazio crescente conquistato da Internet. Un sondaggio pubblicato il 7 febbraio scorso dal Pew Research Center for the People and the Press mostra come 36 americani su 100 stiano seguendo la campagna per le prossime elezioni presidenziali attraverso la TV via cavo, mentre “solo” 25 su 100 prediligono Internet. Non solo: la forza della televisione sta nella sua capacità di rendersi indistinguibile dalla sfera pubblica, cui impone regole e linguaggi. Pensiamo, per restare in Italia, al caso clamoroso di “Porta a Porta”. Il salotto di Bruno Vespa è il luogo della performatività politica per eccellenza, cui si sono inchinati tanto il compiacente Silvio Berlusconi (indimenticabile il suo contratto con gli italiani dell’8 maggio 2001) quanto l’austero Mario Monti.

Barak Obama in televisione

La televisione, insomma, continua a far parlare si sé e continua a parlare di se stessa, in un’apoteosi spettacolare e autoriflessiva. Pensiamo alla vicenda recente di Celentano che, ospite al “Festival di Sanremo”, invoca la chiusura della stampa cattolica, viene “commissariato” dalla stessa direzione Rai che lo aveva invitato a intervenire e successivamente si presenta a “Spazio Pubblico”, il contenitore di Michele Santoro, per spiegare e ribadire le proprie ragioni. La televisione è una sequenza di immagini a mezzo di altre immagini.

La scommessa è che Internet non sostituirà la televisione. I due media si condizioneranno a vicenda, partecipando del processo di convergenza verso un unico metamedium, determinato dal paradigma tecnologico digitale e dalla cultura del software. In questo senso è legittimo parlare di ipertelevisione: quell’insieme di soluzioni tecnologiche, di linguaggi e di modelli di business che stanno progressivamente sostituendo la neotelevisione, affermatasi – in Italia e poi nel resto d’Europa, sul modello americano – negli anni Ottanta.

E poiché il corso si occupa in particolare di giornalismo, la domanda chiave è la seguente: il passaggio dalla neotelevisione alla ipertelevisione sta determinando la nascita di nuove forme di informazione? Se sì, con quali caratteristiche? O ancora: in che modo editori tradizionali e informazione grassroot possono incontrarsi sul mezzo televisivo? Le tecnologie della connessione abilitano l’informazione dal basso, il cosiddetto citizen journalism e l’ubiquità dei network informali. Si afferma un modo nuovo di narrare i fatti, soggettivo e coinvolto. Ne deriva un possibile conflitto fra narrazione imparziale (quella che, da Walter Lippmann in poi, ci si aspetta da un giornalista) e coinvolgimento soggettivo. Le narrazioni grassroot della Primavera araba sono un esempio eccellente di questa tendenza.

Colpisce, in questo senso, How to Film a Revolution, sesto episodio di Occupy the Movie, la serie indipendente diretta da Corey Ogilvie: una lezione di reporting dal basso in forte contrasto con il paradigma della terzietà tanto caro al giornalismo di stampo anglosassone (il video è riprodotto qui sotto).

Nell’ambito del corso sarà affrontata la lettura di tre “testi” di news television. Le analisi privilegeranno un approccio di tipo semiotico. Si cercherà cioè di comprendere i meccanismi attraverso i quali i testi della televisione veicolano un senso. Il presupposto teorico, insomma, è che la televisione – nel suo darsi come struttura, e non solo nei suoi contenuti espliciti – ci dice sempre qualcosa. Siamo consapevoli che si tratta di un metodo da usare con cautela. L’approccio semiotico pone l’accento su integrità e identità dei significati insiti nei testi dei media. Il rischio è di sottovalutare i contesti di produzione, distribuzione e performance di tali testi da parte del pubblico. Per questo cercheremo di integrare l’approccio semiotico classico con una lettura pragmatica. In tal modo ci sforzeremo di capire non solo che cosa la TV fa alle persone, ma anche che cosa le persone fanno con la TV.

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