Timeline, o del conformismo

Ora che Marc Zurckerberg ha annunciato l’estensione della logica del “like” all’insieme delle cose che diciamo, facciamo, ascoltiamo e leggiamo, il rischio di esporre l’intera nostra vita su Facebook diventa ancora più concreto. È la Timeline, bellezza! Viene presentato come un nuovo tipo di profilo, in cui sarà possibile mettere in fila le nostre azioni, i nostri gusti e i nostri contenuti. Zurckerberg parla di serendipità. Io dico: conformismo. Come ha scritto Luca Tremolada sul “Sole 24 Ore”, «potremo vedere i film che i nostri amici guardano, ascoltare la loro musica, scoprire che qualcuno ha i nostri stessi gusti».

Timeline – insistiamo – porta alle estreme conseguenze la cultura del “like”. Sui cui effetti perversi rifletteva un paio di mesi fa Neil Strauss, brillante e discutibile scrittore di Chicago divenuto famoso prima come ghostwriter della pornostar Jenna Jameson, poi come autore di una serie di inutili bestseller, fra i quali il recente Everyone Loves You When You’re Dead: Journeys in Fame and Madness (2011). Il “like” è un gesto apparentemente innocuo e a costo zero. Non a caso si è diffuso come un virus, contribuendo non poco al successo di Facebook. «“Like” culture is antithetical to the concept of self-esteem» (“The Wall Street Journal”, 02/07/2011). Di fronte a un contenuto altrui pubblicato sul Web, possiamo sapere a quante persone è piaciuto e in particolare a quali dei nostri amici. Il che non ci incoraggia a definire la nostra opinione su quel contenuto, ma semmai ad allinearci a quelle degli altri. Se poi il contenuto è nostro, la mancanza di “like”, retweets, “+1” ecc. ci demoralizza, evidenziandone in qualche modo un’inadeguatezza («it’s good to be liked», confessa Strauss).

Like

Il Web rischia di diventare il regno del conformismo. Un mondo dove, anziché condividere contenuti che ci rendono diversi da chiunque altro, cerchiamo di apparire uguali agli altri, trovando nel numero di “like” la misura di questa rassicurante omologazione.

Da uno studio recente, condotto presso il Politecnico di Zurigo, sembra emergere l’evidenza empirica del fenomeno. L’influenza sociale, intesa come possibilità di conoscere sistematicamente le opinioni altrui, restringe in modo drammatico la varietà dei giudizi. Il comportamento gregario prevale sull’intelligenza del singolo. La “saggezza delle folle”, spesso glorificata dai cantori della Rete, rischia di manifestarsi come stupidità del gregge (cfr. Jan Lorenz, Heiko Rauhut, Frank Schweitzer, Dirk Helbing, How social influence can undermine the wisdom of crowd effect, disponibile qui).

D’altronde, come ci ricorda Eli Pariser nel suo The Filter Bubble (2011), la logica della personalizzazione – cui sono improntati motori di ricerca come Google Search, il recommendation engine di Amazon o l’Edgerank di Facebook – non fa che esaltare la tendenza al conformismo, in quanto riduce la possibilità di entrare in contatto con idee diverse dalle nostre. Le tecnologie della personalizzazione ci spingono a cercare conferme alle nostre opinioni, più che sottoporle a falsificazioni.

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