Un autore alle prese con le sfide della scrittura

Naomi Baron e GPT: la sfida della scrittura sintetica

Il nuovo libro della linguista americana riflette sulle implicazioni dell’intelligenza artificiale rispetto alla nostra capacità di restare umani attraverso la scrittura.

Immaginiamo di smarrire la conoscenza della scrittura, delegando tale capacità all’intelligenza artificiale di ChatGPT. Ipotizziamo qualcosa di ancora più inquietante, forse: rinunciare alla prerogativa di essere autori dei nostri testi, ossia delle parole che utilizziamo per comunicare in forma scritta, quando ci relazioniamo con i nostri simili, quando esprimiamo le nostre idee ed emozioni, quando ci sforziamo di dare un significato al mondo. Si tratta di uno scenario fino a ieri fantascientifico, diventato in pochi anni tecnicamente plausibile.

Arriva la scrittura di ChatGPT? Non è il caso di essere apocalittici

Benvenuti nel mondo di ChatGPT e dei LLM (large language models). Non è il caso di essere apocalittici. Semmai, vale la pena di ragionare criticamente, consapevoli che le capacità dell’intelligenza artificiale generativa sono ancora tutte da decodificare. Per cui sarebbe insensato trarre conclusioni definitive. E consci anche del fatto che la scrittura non è sempre stata ciò che è oggi e ha sempre fatto i conti con la tecnologia. Anzi, è essa stessa un fenomeno tecnologico. E dunque sociale.

Alle prospettive della scrittura nel mondo dell’intelligenza artificiale è dedicato il nuovo libro di Naomi Baron, Who Wrote This? How AI and the Lure of Efficiency Threaten Human Writing (Stanford CA, Stanford University Press, 2023). Vale la pena di cominciare dalla coda del libro, bello e appassionato. Perché l’autorialità umana è importante? È questo interrogativo, fatalmente privo di una risposta univoca e definitiva, con cui Baron accomiata i propri lettori nelle ultime pagine del volume. Potremmo anche dirla in un altro modo: perché l’autorialità ci rende umani?

Baron, che ha dedicato buona parte della sua carriera di linguista a riflettere sul modo in cui l’esperienza del testo sta evolvendo nell’ecosistema digitale (in bibliografia riportiamo i suoi contributi più importanti), formula la domanda dopo un percorso che è in gran parte di ricostruzione storica. Capitolo dopo capitolo, Baron ci racconta come siamo pervenuti alla scrittura per ciò che essa è oggi, partendo da una condizione di oralità primaria. Ma un altro racconto si dipana in parallelo: quello del sogno di una macchina capace di manipolare il linguaggio umano e infine di scrivere. Un sogno abbozzato ben prima che nascesse quel campo di studi denominato intelligenza artificiale.

Siamo tutti «scriventi». Talora diventiamo «autori»

Occorre dire che l’autorialità (nell’originale inglese di Baron: «authorship») non coincide con la capacità di scrivere («literacy»). In senso lato, potremmo definire «scrivente» qualunque individuo alfabetizzato che sia impegnato in una determinata pratica di scrittura in modo saltuario o abituale, indipendentemente dalle sue abilità. Con un po’ di munificenza, potremmo ammettere di essere tutti «scriventi». Ma l’autorialità è un’altra cosa.

Essa neppure coincide con la paternità di un testo. Diversamente da quello di paternità, il concetto di autorialità si collega a due principi. Da un lato c’è un principio di appartenenza («il testo appartiene all’autore», nel senso che l’autore è «colui che dà la vita al testo e dunque ne è padre»). Dall’altro lato c’è un principio di rilevanza («l’autore è garante del valore culturale ed eventualmente estetico del testo che produce»). In questo senso, il tema dell’autorialità si collega il problema dell’autorevolezza e della percezione del prestigio.

Non a caso, dunque, Baron pone proprio l’autorialità al centro della sua riflessione sulle tecnologie che sfruttano grandi modelli linguistici per generare testi originali – l’intelligenza artificiale che sa scrivere o che, per meglio dire, imita la nostra capacità di scrivere. Se fosse solo una questione di paternità, potremmo cavarcela ricordando che da almeno un secolo, dagli scandalosi ready-made di Marcel Duchamp, il concetto è stato problematizzato in abbondanza. Con tutte le conseguenze sul piano della gestione del copyright. Pensiamo alle ricorrenti controversie legali provocate dalla diffusione dell’arte appropriazionista, la quale riproduce creazioni altrui, identiche all’originale oppure connotate da alterazioni e reinterpretazioni più o meno manifeste.

Il mito dell’originalità e l’autorialità decostruita

Non occorreva certo l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa perché ci ponessimo la questione. Nel corso degli ultimi cinquant’anni il mito dell’autore è stato oggetto di vari tentativi di decostruzione, che hanno portato in alcuni casi – si pensi ai contributi di Roland Barthes (1968) e Michel Foucault (1969) – a celebrarne la scomparsa.

I criteri di autenticità e originalità ai quali si fa di solito appello traggono origine dall’estetica romantica e dunque sono culturalmente situati. L’arte antica e quella medioevale, diciamo fino al XVI secolo, valutavano l’autorialità in modo sostanzialmente diverso da quello a cui ci ha abituati la modernità. In particolare, il criterio dell’originalità appare come una conquista decisamente successiva. Nel caso delle opere letterarie, poi, fino agli albori dell’epoca moderna l’autore esercitava un controllo minimo sull’azione di soggetti esterni, quali copisti, editori e stampatori.

Si noti, incidentalmente, che il mito dell’autore e il concetto di paternità rimandano a un orizzonte tutto patriarcale. Ancora oggi è difficile, per molti versi, pensare l’autorialità come attributo di un soggetto meno che astratto. L’autore è un neutro omnicomprensivo, oggetto di un discorso falsamente universalistico, che si pretende svincolato da ogni connotazione di genere, razza, orientamento sessuale e classe (Elsa Morante si definiva «scrittore»). Non a caso, il fatto di riferirsi alla maternità di un’opera, anziché alla sua paternità, ha un che di eccentrico. A maggior ragione, rimane politicamente scandaloso parlare di autorità al femminile.

Tante ragioni per coltivare la scrittura

In Who Wrote This?, come dicevamo, Baron distingue fra scrittore («writer») e autore («author»). Scrittore va inteso come chiunque scriva, ovvero lo scrittore di ogni giorno («everyday writer»). L’autore è chi, scrivendo, soddisfa una serie di specifici requisiti: 1) ha qualcosa di nuovo da dire, e sa dirlo nel modo giusto; 2) produce dei testi in vista della loro pubblicazione; 3) associa il proprio nome a ciò che scrive; 4) si assume la responsabilità delle cose che scrive; 5) è personalmente motivato a scrivere.

Questa distinzione, in base alla quale non basta scrivere per essere autori, suggerisce che la scrittura risponde a motivazioni di volta in volta diverse. Secondo Baron ci può capitare di scrivere per esigenze pratiche quotidiane, per esempio quando compiliamo la lista della spesa, oppure perché siamo costretti (pensiamo agli esercizi di scrittura previsti dai curricoli scolastici e universitari e imposti a legioni di studenti in tutto il mondo), o ancora perché dobbiamo informare o istruire gli altri (giornalismo, manuali, saggi). Scriviamo per comprendere meglio la realtà che ci circonda (narrativa), per scoprire e conoscere noi stessi (autobiografia), o infine perché siamo mossi da un insopprimibile impulso.

Ancora più interessante è riconoscere che il processo della scrittura conosce quasi sempre un gradino ulteriore: la riscrittura («another step in the writing process», come lo definisce Baron a pag. 27 del suo libro). E, anche in questo caso, ci troviamo di fronte a un’eterogeneità di motivazioni. Intanto riscriviamo per verificare la correttezza ortografica e grammaticale di quanto abbiamo scritto. Poi per migliorare l’organizzazione del nostro testo, ovvero la sua coerenza e la sua potenza argomentativa. Agiamo cioè sulla dispositio dei suoi elementi (τάξις) e sulla sua elocutio (λέξις). Addirittura, in una prospettiva pragmatica, riscriviamo per rafforzare la capacità perlocutoria del testo.

L’intelligenza artificiale di ChatGPT: un’arma a doppio taglio

Strumenti come ChatGPT aiutano ad assolvere taluni di questi compiti? In un certo senso, sì. La prospettiva è di una crescente produttività, insita nell’impiego dell’intelligenza artificiale in questo come in molti altri ambiti. I grandi modelli linguistici applicano un approccio di tipo probabilistico e sfruttano una impressionante capacità di calcolo. In tal modo rendono più efficienti molte fasi del processo di scrittura/riscrittura (si veda anche LLMs: lettori fortissimi, analfabeti e distanti). Un modello linguistico artificiale è una distribuzione di probabilità su sequenze di parole. Data una qualsiasi sequenza di parole di lunghezza m, un modello linguistico assegna una probabilità P all’intera sequenza. In questo senso, un LLM (large language model) non è una vera e propria grammatica: è dotato di capacità morfologiche e sintattiche, ma non semantiche.

Ma ChatGPT è un’arma a doppio taglio. Mentre ci aiuta a svolgere in modo più efficiente operazioni legate alla scrittura, contribuisce a indebolire la nostra autoconsapevolezza, ossia la capacità di guardare a ciò che abbiamo scritto e di interrogarci su come avremmo potuto scriverlo meglio. Baron invita dunque alla prudenza, in nome della necessità di tutelare tale autoconsapevolezza.

Un quadro in rapida evoluzione

Quali compiti dovremmo condividere con l’intelligenza artificiale, nel contesto di quella specifica abilità che chiamiamo scrittura? Quale dovrebbe essere il confine da non superare? Baron ammette che rispondere a domande simili non è semplice. Probabilmente le risposte che diamo oggi – in modo individuale, ma anche come collettività – sono destinate a cambiare in parallelo con l’evoluzione delle tecnologie di cui ci stiamo occupando.

Si noti che Baron affidava alle stampe Who Wrote This? proprio nei giorni in cui OpenAI rilasciava GPT-4, un modello diverso e più potente rispetto a GPT-3, che la stessa Baron non ha fatto in tempo a provare prima di licenziare il libro in tipografia. È lecito sospettare che l’autrice rivedrebbe alcune delle sue conclusioni, alla luce dei recenti sviluppi dei grandi modelli linguistici (non solo GPT di OpenAI, prossimo alla versione 5, ma anche Gemini di Google e molti altri).

Alcune buone ragioni per non gettarci nelle braccia di ChatGPT

Baron suggerisce una serie di buone ragioni per non affidarci a cuor leggero alle capacità di ChatGPT. Lo fa sulla scorta di due sondaggi, condotti rispettivamente in Italia e negli Stati Uniti, che aiutano a mettere a fuoco atteggiamenti e bisogni di giovani che leggono per studio, diletto e altro. Il primo rischio da scongiurare è che, affidando all’intelligenza artificiale il compito di sorvegliare sulla nostra ortografia, riduciamo la conoscenza del modo corretto di scrivere le parole. Com’è noto, il problema dello spelling è particolarmente sentito nella lingua inglese, ma vale anche per la maggior parte degli altri contesti linguistici. Ebbene, Baron rimanda a diversi studi in quali correlano la capacità di scrivere e leggere alla conoscenza dell’ortografia: meglio conosci una parola, più semplice ti risulterà leggerla e più probabilmente la impiegherai nella tua scrittura.

Considerazioni analoghe valgono per le competenze di editing, ossia di riscrittura. Queste, come abbiamo detto, hanno lo scopo di migliorare l’organizzazione del dei nostri terzi e quindi la loro potenza argomentativa, grazie a interventi atti a rafforzarne la coerenza e la coesione. Le scienze cognitive ci stanno aiutando a capire ciò che accade nel nostro cervello quando siamo impegnati in questo tipo di attività. Le tecniche di neuroimaging evidenziano uno sviluppo specifico delle aree cerebrali impegnate quando scriviamo. Aree che rischiano di essere disingaggiate nel momento in cui deleghiamo le stesse attività alle macchine.

Un fatto ancora più interessante riguarda la pratica della scrittura manuale, specie in corsivo. In questo caso gli studi mostrano una più ridotta tendenza a distrarsi, rispetto alla scrittura supportata dal computer e una correlazione con la capacità di leggere e scrivere. Nei bambini, poi, la pratica chirografica è associata a un’attività cerebrale più intensa rispetto a quella mediante l’uso di una tastiera.

Una scheda di valutazione per decidere  

Dunque perché, torniamo a domandarci, l’autorialità umana è importante? Perché – suggerisce Baron – essa sembra legata a una serie di abilità cognitive che vale la pena di continuare a coltivare. Sono le abilità che ci rendono umani: la capacità di discernimento, la logica, il ragionamento induttivo e deduttivo, la memoria. In breve: lo spirito critico. Questo non significa rinunciare al supporto dell’intelligenza artificiale. Significa, semmai, valutare di volta in volta il prezzo da pagare in rapporto all’opportunità di rendere il proprio lavoro più efficiente.

Baron propone una sorta di scheda di valutazione («scorecard») in tre punti: 1) Qual è la motivazione che mi induce a scrivere nello specifico contesto in cui sto operando? 2) C’è una minaccia concreta alle mie capacità e come posso scongiurarla? 3) Quali abilità legate alla scrittura vale la pena di tutelare nella circostanza data, in quanto aggiungono valore rispetto alle capacità di ChatGPT o strumenti simili?

[L’immagine di apertura di questo articolo è stata generata con Midjourney 6]

Riferimenti bibliografici

Naomi Baron, Alphabet to Email: How Written Language Evolved and Where It’s Heading, London, Routledge, 2000.

Naomi Baron, Always On: Language in an Online and Mobile World, New York NY, Oxford University Press, 2008.

Naomi Baron, Words Onscreen: The Fate of Reading in a Digital World, New York NY, Oxford University Press, 2015.

Naomi Baron, How We Read Now. Strategic Choices for Print, Screen, and Audio, New York NY, Oxford University Press, 2021; trad. it. Come leggere. Carta, schermo o audio?, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2022.

Roland Barthes, La mort de l’auteur (1968), in Le Bruissement de la langue: Essais critiques IV, Paris, Seuil, 1984, pp. 61-67; trad. it. La morte dell’autore, in Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Torino, Einaudi, 1988, pp. 51-56.

Michel Foucault, Que est-ce que un auteur? (1969), in, Dits et écrits, Paris, Gallimard, 1994, pp. 789-821; trad. it. Che cos’è un autore?, in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 1-21.

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