Pasolini

Scandali #corsari

Scatta fra dieci giorni l’operazione #Corsari, nuovo progetto di riscrittura collaborativa che abbiamo annunciato qui.

Perché Pasolini? Perché, a oltre trent’anni dalla sua morte, lanciare un flash mob culturale teso a rileggerne l’opera attraverso il metodo aumentato della twitteratura? E perché proprio gli Scritti corsari? Si dirà: perché Pasolini è un classico, e parlarne va sempre bene. Rispondo: Pasolini è un’anti-classico, e parlarne quasi mai va bene. Nel senso che, con lui, quasi mai le cose filano lisce. È facile prevedere che anche questa volta sarà così. Dalla sua antipatia ci metteva in guardia egli stesso. C’era in lui l’inesorabile capacità di suscitare una passione (pathos) contraria (anti). Solo che oggi l’antipatia è ridotta a tecnica di marketing, fornisce maschere ciniche, buone tutt’al più per il mercato televisivo: Feltri, Travaglio, Ferrara e simili malinconie. L’antipatia di oggi è fotogenica, mentre quella di Pasolini – specchio di un amore evangelico per l’altro – si guadagnava l’altrui disprezzo. Ne La Divina Mimesis (uscita nel 1975, pochi giorni dopo la sua morte) scriveva Pasolini: “sono destinato a ingiallire precocemente […] perché la piaga di un dubbio, il dolore di una lacerazione, divengono presto dei mali privati, di cui gli altri hanno ragione di disinteressarsi.” Quasi una profezia.

Lanciamo #Corsari perché è opportuno che gli scandali avvengano. Perché ci servono la luce seria e commossa dell’intellettuale che non chiede alcun mandato, l’amore “fisico e sentimentale” del poeta, l’ideologia come ricerca di forme nuove mai disgiunta dalla passione. Negli Scritti corsari Pasolini affrontava le grandi lacerazioni della società italiana della prima metà degli anni Settanta, l’ingresso del nostro paese nel “deserto postindustriale”. Alcune questioni sono datate, altre restano straordinariamente attuali. Pasolini proponeva chiavi di lettura anticonformiste, fulminanti e provocatorie, talvolta discutibili o comunque anacronistiche. Anch’egli era lacerato, fra la figura “ingiallita” del “piccolo poeta civile degli anni Cinquanta” e il “soldato disperso” del presente (cito ancora da La Divina Mimesis) Allora si meritò gli epiteti di populista, nostalgico e reazionario. Invece era solo tragico. Nel senso che dava una forma tragica alla crisi di cui anche altri scrittori suoi contemporanei furono testimoni.

Quella di Pasolini fu una resistenza senza illusioni (“un poeta deve avere delle illusioni, ma quando le perde non deve illudersi di averle ancora”, lasciò detto al giornalista Peter Dragadze), tenera e ostinata, quasi titanica. L’intellettuale italiano – il solo, forse – cui sappiamo paragonarlo è Giacomo Leopardi. Ed è significativo che lo stesso Pasolini, nel Canto II de La Divina Mimesis, abbia congiunto una memoria leopardiana alla celebre allegoria dantesca dei “fioretti dal notturno gelo” (Inferno II, 127). Come non ritrovare la ginestra del Recanatese, in questa chiusa?

Anch’io, come un fiore – pensavo – nient’altro che un fiore non coltivato, obbedisco alla necessità che mi vuole preso dalla lietezza che succede allo scoraggiamento. Poi certo verrà ancora qualcosa che mi offenderà e mi massacrerà: ma anche per me, come per i fiori delle altre primavere, il passato si confonde con il presente, e un prato è qui, e insieme, nel cosmo.

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