La rivolta non aspetta Facebook

Un commento del 2 febbraio scorso di Malcom Gladwell, brillante firma del New Yorker, ha provocato non poche polemiche a proposito del ruolo esercitato dai social media nei recenti fatti egiziani. Nel suo post, intitolato Does Egypt need Twitter?, Gladwell avanza il seguente dubbio: il fatto che, nei giorni più caldi della protesta, numerosi attivisti egiziani (quanto numerosi?) abbiano usato in modo intenso piattaforme come Facebook o Twitter per comunicare comporta necessariamente che tali piattaforme abbiano svolto un ruolo rilevante? Dopo tutto la gente si è rivoltata contro i propri governanti e ha abbattuto regimi in tutte le epoche, anche prima che Facebook fosse inventato. Pensiamo a quanto capitò nel 1989, quando centinaia di migliaia di tedeschi della DDR si concentrarono in poche ore davanti al muro di Berlino, benché privi di telefono cellulare.

Gladwell si è trovato in breve al centro di una discussione che, al di là dei clamori retorici dei soliti feticisti della rete, può essere utile per fare un po’ di chiarezza. In questo dibattito c’è chi ha insistito, in particolare, sul fatto che i social media costituiscono un fattore critico nella evoluzione di un nuovo tipo di politica, basata sull’interconnessione dei cittadini. In questo senso Twitter e Facebook non sono la causa del cambiamento, ma un utile indicatore. Questa è, per esempio, la tesi di Charlie Beckett, direttore di Polis (After Tunisia and Egypt: towards a new typology of media and networked political change, senza data) e di Jay Rosen (si veda il suo post The “Twitter Can’t Topple Dictators” Article, del 13 febbraio 2011).

Un’obiezione interessante alla tesi di Gladwell è quella di Annie Paul, la quale del suo blog Active Voice enfatizza una differenza fondamentale fra la rivolta di Piazza Tahrir e altre situazioni del passato: quella egiziana sarebbe una rivoluzione senza leader (“a leaderless revolution”, come si può leggere nel post Egypt, Gladwell and the Social Revolution del 6 febbraio scorso). E la capacità del popolo egiziano di coordinarsi in assenza di leadership dipenderebbe proprio dall’uso dei social media, i quali rendono possibile il fenomeno della flashmob politics.

Ancora più interessanti mi sembrano le riflessioni contenute in un recente post su Canarytrap.net, della ricercatrice del Convergence Culture Consortium Xiaochang Li (si veda Twitter, Gladwell, and Why Social Media’s Revolutionary Potential Isn’t (Really) About Egypt, senza data). Secondo l’autrice non è tanto rilevante che cosa Twitter ha fatto per l’Egitto, ma che cosa l’Egitto ha fatto con Twitter. I dimostranti del Cairo non hanno utilizzato i social media solo per fare circolare le informazioni, ma anche e soprattutto per dare visibilità a questa circolazione. E questo processo di pubblicizzazione della comunicazione ha delle conseguente sul modo di intendere la cittadinanza. In definitiva non ha senso affermare, come ha fatto un professore egiziano in preda all’entusiamo, che quella di piazza Tahrir è la prima rivoluzione Internet-based. I social media non fanno la rivoluzione, ma contribuiscono ad accelerare la formazione di una sfera pubblica.

Oggi, infine, Moisés Naím interviene sul tema nella pagina dei commenti del Sole 24 Ore. In un articolo intitolato Twitter e Facebook non sono stati i fucili NaÍm invita a riflettere su alcune fondamentali differenze fra il caso egiziano e quello di paesi come la Libia o lo Yemen (dove la penetrazione di Internet è assai limitata) e ricorda il ruolo decisivo giocato dalle forze armate:

Il fascino giocato dal ruolo delle nuove tecnologie all’interno dei cambiamenti politici nel mondo arabo ha offuscato l’importanza rivestita in passato da un’altra tecnologia: i fucili. L’operato delle forze armate in Tunisia o Egitto è stato altrettanto se non più determinante di Facebook. In questi paesi i militari hanno privato del proprio appoggio i rispettivi dittatori, cui non è rimasta altra scelta che andarsene. Come ho già scritto in altri articoli, sono i militari a stabilire il “quando” e il “come” della fine di una dittatura. Cosa ha a che vedere internet con tutto ciò? Molto meno di ciò che stiamo leggendo e ascoltando nelle notizie di questi giorni.

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