Biblioteca-Sormani-Milano

La fatica di leggere ai tempi del coronavirus

Prima le inquietudini del lockdown, poi le incertezze della fase 2. Così l’emergenza sanitaria ci ha rubato il piacere di leggere un buon libro.

Regna l’incertezza. In quale stadio dell’era pandemica state abitando, mi chiedo, voi che mi leggete? Impossibile dirlo. Quanto a me, ho scritto queste righe all’inizio della Fase 2. Una Fase 2 che si è dilatata e si sfilacciata, senza che sulla sua conclusione si raggiungesse un consenso: per alcuni l’emergenza è solo un ricordo, mentre altri continuano a muoversi fra mille precauzioni e inquietudini, nella convinzione di una minaccia incombente. Basta poco per dividersi fra «catastrofisti» e «incoscienti».

È una mattinata di luglio: quel luglio di Milano, così afoso quand’è afoso. Sarebbe una giornata di ordinaria calura, se non si collocasse nella prima estate di quest’era pandemica, appunto, in cui nulla pare ordinario. Trovandomi nella necessità di consultare le Familiares del Petrarca nell’edizione curata da Ugo Dotti per Utet nel 1978, di cui non dispongo copia, ho deciso di recarmi in biblioteca. Dal sito web ho appreso che, dopo mesi di chiusura, la Sormani — la maggiore delle ventisei biblioteche del Sistema di pubblica lettura milanese — è nuovamente aperta. Così faccio esperienza di una Fase 2 presa molto sul serio. Esercizio tanto più notevole, considerando che a poca distanza dalla Sormani i luoghi della movida cittadina celebrano a tutti i costi un’ostentata normalità ormai da settimane (a proposito: com’è successo che, nata per dare un nome al movimento culturale della Spagna che si scrollava di dosso le miserie del franchismo, l’espressione movida ha finito per designare il modo più volgare e conformista di trascorrere il tempo libero?)

Come il tenente Drogo nella Fortezza Bastiani

Ovviamente i visitatori della biblioteca sono tenuti a indossare la mascherina, igienizzare le mani, sottoporsi alla misurazione della temperatura e mantenere la distanza di sicurezza di almeno un metro dalle altre persone. Soprattutto è obbligatorio prendere un appuntamento per accedere alle sale studio e per la consultazione in sede. Incoraggiato dalla disponibilità di una mobile app, di buon’ora ho effettuato la mia prenotazione trovando posto per il giorno stesso. Solo che ho travisato: la app va usata solo per l’accesso alle sale studio, mentre per la consultazione in sede è necessaria la prenotazione telefonica. Prima di chiarire l’equivoco con il personale presente, faccio a tempo ad aggirarmi per una Sormani irriconoscibile: oltre a me, solo un altro visitatore si muove smarrito attraverso gli spazi dello storico palazzo, di solito affollato di milanesi. A presidio della Sala Massima, completamente vuota, c’è un commesso che mi scruta con sospetto. Sembra domandarsi chi o che cosa mi abbia condotto in quella Fortezza Bastiani, a fronteggiare un nemico inesistente.

Con fatica persuado un secondo addetto a fare uno strappo alla regola e ottengo che mi venga consegnato il mio Petrarca, pur non avendo prenotato il servizio per telefono. Mi accomodo in uno dei tavoli — tutti liberi, dato che sono rimasto l’unico utente — e mi immergo nel testo della celeberrima epistola a Giovanni Anchiseo, quella in cui Petrarca celebra il valore della lettura. Ricordate? «I libri ci offrono un godimento molto profondo, ci parlano, ci danno consigli e ci si congiungono, vorrei dire, di una viva e penetrante familiarità». Trovo ciò che andavo cercando, lo annoto su un quaderno e restituisco il volume, il quale viene collocato fra quelli da porre in quarantena. Sì perché, mentre nelle librerie italiane, ritornate operative già in aprile, i volumi esposti possono essere maneggiati dai clienti senza particolari precauzioni, le verbose linee guida dell’Istituto Centrale per la Patologia degli Archivi e del Libro suggeriscono che quelli consultati nelle biblioteche debbano restare in isolamento per almeno dieci giorni, riposti in apposite «buste di contenimento», prima di una nuova fruizione. L’Associazione Italiana Biblioteche ha invero contestato tali indicazioni, proponendo che i libri restituiti siano posti in isolamento per un periodo non superiore alle 72 ore. Ma nel frattempo una linea chiara e univoca non è stata trovata. Stando alla letteratura scientifica disponibile, scrupolosamente censita dall’IFLA (la Federazione Internazionale delle Biblioteche), una quarantena di dieci o anche sette giorni sembra davvero eccessiva, considerando che il rischio di permanenza del virus sulla carta è valutato basso o addirittura nullo. Nelle biblioteche di Svizzera, Olanda, Belgio e Russia la quarantena è di 72 ore, nella Repubblica Ceca di 48 e in Austria di 24. Solo il sistema bibliotecario dell’Argentina ha adottato una misura più severa, imponendo una quarantena di 15 giorni.

Più considerazione per discoteche e sale bingo

Infine esco a rivedere il sole abbagliante della mia città. Il contrasto fra un dentro opprimente e angosciato (la biblioteca) e un fuori con tanta voglia di ricominciare (i bar, i negozi, i mezzi di trasporto pubblico) mi appare impressionante. Non ho gli strumenti tecnici per giudicare l’adeguatezza di certe misure, né ho svolto un censimento sistematico della situazione in tutta Italia. E neppure azzardo confronti fra il servizio di prenotazione online del Sistema bibliotecario di Milano e il Grab & Go della New York Public Library, adattato già da luglio alla situazione sanitaria e — mi dicono — pienamente operativo. Tuttavia mi domando: perché, accedendo alla Sormani, ho provato la sgradevole sensazione di trovarmi in un dispositivo pensato non tanto per proteggere i suoi visitatori dal virus, quanto per distanziare sé stesso dai visitatori? Siamo ancora fermi alla biblioteca di Grosseto degli anni Cinquanta, evocata da Luciano Bianciardi in quell’impareggiabile combinazione fra romanzo di formazione e saggio di costume che è Il lavoro culturale, nella quale «non entrava quasi mai nessuno, perché il vecchio bibliotecario non amava i seccatori. Come molti dei suoi colleghi, considerava la biblioteca un suo luogo privato»? Perché, a oltre due mesi di distanza dal DPCM del 17 maggio 2020, che autorizzava l’apertura delle biblioteche, è ancora così difficile garantire un servizio di complessità tutto sommato contenuta? O forse meritano maggiore attenzione ristoranti, discoteche e sale bingo? Il sospetto — per dirla con le parole di Fulvio Cervini, presidente della Consulta Universitaria Nazionale per la Storia dell’Arte — «è che questo settore venga lasciato indietro perché non direttamente connesso alle strutture del commercio e della produzione industriale» (lettera del 10 luglio 2020 a MIUR e MIBACT). Ma forse, quando leggerete queste mie considerazioni, tutto ciò sarà solo un ricordo. Il ricordo della maledetta Fase 2.

Le biblioteche non sono centri di conservazione. Né strutture che debbano servire solo agli studiosi e ai ricercatori. Lo avevano ben compreso Pier Silverio Leight e Gerardo Bruni, quasi un secolo fa, anche sulla scorta del modello civico che nacque negli Stati Uniti e che raramente siamo riusciti a riprodurre in Italia. A ben vedere, la biblioteca non è neppure il posto in cui andiamo a leggere. Resta per me insuperata la definizione che ne dà Susan Orlean, nel suo appassionato The Library Book (2018): la biblioteca come «quel luogo fisico che appartiene a una comunità e in cui la comunità si riunisce per condividere informazioni […]. Un luogo in cui ci si sente a casa quando non si è a casa». Ecco dunque il paradosso. Ora che le condizioni e i decreti governativi lo consentono, vorremmo raggiungere, nella biblioteca, quella destinazione che abbiamo sempre avvertito come nostra. E invece non la troviamo. Durante la Fase 1, d’altra parte, eravamo costretti in casa, ma non ci sentivamo a casa. E per questo leggere era una fatica, anche se avevamo più tempo a disposizione.

Sindrome da stress pandemico

Ve lo ricordate, il lockdown? Ci dicevano di approfittare della sospensione di tante attività ordinarie e della clausura forzata entro le mura domestiche per fare le cose che da tempo avevamo smesso di fare. C’è chi ne ha approfittato per dedicarsi alle grandi pulizie di primavera. Chi ha riscoperto con soddisfazione le proprie capacità culinarie. E chi si è riproposto di leggere quel romanzo che da tanto tempo giaceva sul comodino, in attesa che si presentasse il momento giusto. Perché, si sa: nella nostra vita ordinaria manca sempre il tempo per tutto, in particolare per le cose importanti.

Le condizioni imposte dall’emergenza sanitaria sembravano ideali per leggere. Non per leggere in modo superficiale e frettoloso, con un occhio al libro e l’altro al cellulare, sempre distratti da altro. No, voglio proprio dire leggere isolandosi da tutto il resto. Prendendosi il tempo e la concentrazione necessari per stabilire una relazione esclusiva con il testo che sta davanti ai nostri occhi. Tanti studi ci dicono che questa pratica, attraverso la quale per secoli la cultura si è trasmessa di generazione in generazione, è in pericolo. Secondo questi studi, corriamo un grosso rischio: quello di disimparare a leggere.

E allora quale occasione migliore, per rifare pace con i libri? In un certo senso la lettura profonda esige “distanziamento sociale”. Di più: per Proust la lettura è una strana forma di dialogo, che si può svolgere solo in solitudine. Eppure, in quel momento di crisi per tutti noi, non è stato facile sfruttare l’opportunità che la crisi stessa ci offriva. Avevamo più tempo. Avevamo più silenzio. Ma non riuscivamo a concentrarci come avremmo voluto nella lettura di un libro. Perché? Credo per almeno tre ragioni. In primo luogo perché, quando tutto questo ci è stato imposto, non eravamo pronti a cambiare ritmo e a godere di un “tempo intimo”. Secondariamente perché eravamo comunque sottoposti, anche se chiusi in casa, a un sovraccarico informativo abnorme. Eravamo prigionieri della nostra condizione ipermediatizzata. Qualcuno ha detto, in tal senso, che la pandemia si è accompagnata a un’infodemia. Infine faticavamo a concentrarci perché vivevamo l’angoscia che nasce dall’incertezza, la quale ci ostacolava in quell’esercizio di attivazione delle nostre facoltà inventive e di riproduzione delle emozioni altrui che è alla base delle grandi letture.

La difficoltà a trovare la concentrazione necessaria per leggere, quando viviamo una condizione di stress, si spiega anche a livello neurologico. Nei momenti di pericolo il nostro corpo si mette in pausa, per essere pronto a proteggerci dal pericolo stesso. La corteccia prefrontale interrompe la sua attività. Inoltre, quando siamo sotto stress fatichiamo a esprimere empatia, ossia a metterci nei panni degli altri. Ma questa è proprio l’attitudine necessaria per leggere un testo letterario, il quale ha la pretesa di trasferirci provvisoriamente in una dimensione esistenziale alternativa. D’altra parte, se la realtà ci appare spaventosa e insopportabile, potremmo anche essere indotti a evadere artificialmente, per sottrarci al disagio che essa provoca in noi. La lettura potrebbe apparirci come una fuga dalla realtà.

Lockdown, dunque. E poi Fase 2, esperienza del distanziamento sociale, nuova normalità, vita dopo il covid, mascherine sì e mascherine no, gel a base alcolica, tamponi faringei e quarantene. E in tutto questo dovremmo anche trovare la disposizione giusta per tornare a leggere qualche bel romanzo? Magari proprio quel romanzo che volevamo leggere da tanto tempo? Per alcuni leggere è una reazione naturale, ma non per tutti. C’è chi ha smesso di leggere, chi fa più fatica, chi si accorge di non ricavarne quel piacere che si aspettava. I risultati di un’indagine Cepell-AIE sulla lettura nei mesi dell’emergenza sanitaria, diffusi a luglio 2020, sembrano confermare che l’Italia chiusa in casa è un Paese in cui si è letto ancora meno del solito: la quota di non lettori, pari al 42% su base annua, è passata al 50% nei mesi di marzo e aprile del 2020. Quasi la metà di chi non ha letto durante il lockdown (il 47%) dichiara di essere stato vincolato dalla mancanza di tempo, il 35% dalla mancanza di spazi per concentrarsi e il 33% dalle preoccupazioni.

Possiamo leggere tutto questo

Penso che, mai come in questo tempo di pandemia, sia necessario seguire i consigli dettati dal buon senso. Primo fra tutti quello che ci suggerisce di leggere i libri che ci piacciono, non quelli che dobbiamo leggere. O quello di non sforzarci di leggere libri molto lunghi, se siamo stanchi, stressati o affaticati (a volte un audiolibro si rivela un’eccellente alternativa antistress alla carta stampata). Ma soprattutto, evitiamo gli atteggiamenti assolutisti. Evitiamo, cioè, di ridurre noi stessi al nostro amore per i libri e la lettura. Se riponiamo troppe aspettative nella lettura, nel momento in cui ci accorgiamo di non ricavarne piacere, magari perché siamo stanchi o sfibrati, viviamo una profonda frustrazione, la quale non fa altro che alimentare la nostra ansia e dunque nutrire un circolo vizioso.

Detto ciò, a costo di sembrare contradditorio penso che le persone siano talvolta capaci di imprese straordinarie, proprio quando vivono in condizioni di stress. Ciò vale anche per chi scrive. E per chi legge. La poetessa russa Anna Achmatova, che per spiegare le radici della sua arte soleva dire «non faccio altro che leggere Dante», non ebbe certo una vita facile. Perseguitata dal regime sovietico per decenni, Achmatova era costretta a scrivere le sue poesie su piccoli fogli di carta, che bruciava subito dopo la composizione. I testi della Achmatova circolavano clandestinamente, per lo più in forma orale, perché non ne restasse traccia. Nel museo dedicato alla poetessa, a San Pietroburgo, si conserva oggi un libricino minuscolo, confezionato con corteccia di betulla dal prigioniero di un campo di lavoro sovietico. Su di esso quest’uomo aveva trascritto, di nascosto dalle guardie del gulag, le poesie di Achmatova che ricordava a memoria.

Nel periodo in cui scriveva lo straordinario poema Requiem, Anna Achmatova si trovava in fila da ore davanti alla più grande prigione dell’Unione Sovietica. Dopo che le avevano fucilato il marito, cercava di incontrare il figlio, che era stato a sua volta arrestato. In coda dietro di lei c’era una donna che, avendola riconosciuta, le chiese: «Lei può raccontare tutto questo?» Achmatova rifletté per qualche secondo e rispose: «Posso». Ecco, credo che anche chi legge abbia l’opportunità di dire, oggi, «posso». Non perché sia diventato più facile. Ma perché è diventato più necessario. Necessario perché per riparare le cose rotte ci vuole pazienza. E di sicuro questa volta ce ne vorrà molta. Stiamo procedendo per fasi, lungo un cammino che sarà soprattutto di consapevolezza. La lettura è la vera riparazione. È la riparazione che esalta le ferite, invece di nasconderle.

[Testo originariamente apparso in “PreText”, 13–14 (dicembre 2020), pp. 10–16]

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