Lettera a una studentessa, non troppo immaginaria, sulla tirannia della comunicazione in questi nostri tempi. E sulla sua necessità.
Cara M*, mi rivolgo a te con il tuo nome (M* sta forse per Martina: vi chiamate tutte Martina, in qualche modo). E ti do eccezionalmente del tu. Lo faccio anche se in Università tengo molto all’uso del lei. Il lei mi è sempre sembrato corrispondere alla forma allocutiva migliore per attestare il senso della relazione che dovrebbe intercorrere fra studente e docente. E questa è forse la prima lezione sulla comunicazione: cercare di comprendere come sia accaduto che, gradualmente, l’uso del tu abbia trovato cittadinanza fra le nostre aule.
Un uso non reciproco e asimmetrico, va precisato. Gli stessi professori che, da un certo momento in avanti, hanno preso a rivolgersi ai propri studenti con il tu, mantengono ben salda l’aspettativa di sentirsi appellati con il lei da quegli stessi studenti. Col risultato che, se prima eravamo tutti destinatari della stessa deferenza linguistica, in università, oggi quella deferenza viene riservata solo a una parte.
Prime divagazioni
Ci dovremmo domandare il significato di una simile asimmetria. Non credo che essa risponda allo scopo di marcare una differenza di status fra gli interlocutori. Quella deferenza che si manifesta invece nel giapponese onorifico, nei casi in cui il sonkeigo («linguaggio rispettoso») viene utilizzato in concomitanza con il kenjōgo («linguaggio umile»): l’uno per rivolgersi all’interlocutore in posizione gerarchica rilevante, l’altro per riferirsi a sé stessi. Al contrario, ci leggo il segnale di una discutibile e irrisolta volontà di banalizzare l’istituzione per via sentimentale. A noi docenti sembra giusto dare del tu ai nostri studenti perché in fondo ci sentiamo come tanti papà e tante mamme. Li trattiamo alla pari dei nostri figli, con lo stesso livello di affetto e confidenza.
Del resto, se fino a qui gli studenti hanno mantenuto il lei nei nostri confronti, un altro tic linguistico è intervenuto a segnalare la familiarizzazione del rapporto con gli insegnanti. Alludo all’uso, ormai sistematico, della forma accorciata prof al posto di professore e professoressa, fenomeno ancora più odioso ai miei occhi. Che cosa volete comunicarci, cari studenti, con quel prof? Volete ricordarci che non vi sentite tanto più in basso di noi, anche se spesso esibite un’ignoranza abissale? Volete vezzeggiarci? O forse volete rendere meno grave l’atmosfera dell’università? Ebbene, considerate che senza quella gravità – la gravitas latina, che è insieme dignità, senso del dovere e serietà di atteggiamento – l’università è persa.
Banalizzazione e sentimentalismo, appunto. Vuoi un’altra spia di questa deriva, cara M*? Pensa all’uso deforme della dedica, collocata in esergo alle tesi di laurea di tanti tuoi colleghi e forse anche alla tua. È tutto un profluvio di ringraziamenti. Ai genitori, per avervi fatto capire che cosa conta davvero nella vita. Ai nonni, che vi sono stati così vicini quando eravate piccoli e che occupano un posto speciale nel vostro cuore, anche adesso che non ci sono più. Ai fidanzati e alle fidanzate, che non hanno mai smesso di credere in voi e che vi fanno sentire importanti in ogni momento, nelle cose piccole come in quelle grandi. Agli amici, per le notti trascorse insieme a bere e ragionare, a ridere e piangere; quelle notti mentre fuori pioveva o c’era la nebbia. Al cane, il più fedele di tutti, cui basta uno sguardo per dirvi che lui c’è. E poi al prof, ci mancherebbe altro. Inutile dirti che non approvo questa ostentazione patetica. La trovo inappropriata rispetto a un contesto che invece dovrebbe essere contenuto.
D’altronde il sentimentalismo dilaga in ogni ambito della sfera pubblica. E sospetto che l’accentuazione smodata delle manifestazioni affettive sia lo specchio di una certa infantilizzazione della società promossa dai media. O forse è l’altra faccia di una società che scoraggia l’espressione individuale delle emozioni. L’ho pensato, per esempio, quando ho visto una nazione intera reagire alla pandemia del 2020 con gli «andrà tutto bene» e con le canzoni ai balconi.
La scienza delle merendine
Vedi, cara M*? Sto già divagando, come mi capita di fare a lezione. La verità è che volevo anch’io compiere un’operazione in qualche modo sentimentale, per infonderti coraggio. Ti stanno venendo mille dubbi sulla scelta del corso di laurea. Sul conto di scienze della comunicazione ne senti dire e ne leggi di tutti i colori: che non è una laurea spendibile, che non offre prospettive concrete sul piano professionale, che è il ripiego degli inetti («quelli bravi studiano ingegneria o medicina»). Per irriderla la chiamano «scienza delle merendine», per dire quanto sia inutile. Addirittura la tua laurea è stata sbeffeggiata in un episodio dei Simpsons (il 237°, quello trasmesso la prima volta da Fox il 16 gennaio 2000 con il titolo Faith Off) dove la si liquida come «phony degree». Una finta laurea, insomma.
Invece vorrei dirti che la comunicazione è una cosa importante, e che fai bene a studiarla. Soprattutto oggi che si trova al centro di due grandi movimenti. Il primo movimento è quello che trasforma la comunicazione nello strumento forse più potente per imporre agli altri la propria verità, attraverso la propaganda, la manipolazione del linguaggio e la seduzione delle parole o delle immagini. Sono tra quelli che vedono nella verità – una verità «imperfetta, umiliata», come direbbe Franco Fortini – il punto di arrivo della comunicazione.
La verità è una meta, che non si raggiunge mai da soli, ma sempre in compagnia di altri. Coloro per i quali la verità precede l’incontro con l’altro e prescinde da esso, viceversa, considerano la comunicazione nient’altro che la continuazione della violenza fisica con altri mezzi. Il secondo movimento è quello per cui la comunicazione si sta mangiando il mondo, occupando lo spazio della conoscenza, della politica e dell’arte. Parlo della comunicazione massmediatica, un’esperienza fondata invero più sul principio della forza propagandistica che su quello del dialogo comunicativo. Imponendo le proprie logiche a sfere della vita pubblica che in passato erano dotati di un loro statuto autonomo, la comunicazione si sta prendendo tutto. Essa diventa una manifestazione ancora più totalitaria dell’ideologia, come ha sostenuto Mario Perniola qualche anno fa.
Un’incontenibile invasione di campo
I due movimenti cui qui alludo si fondono.
Da un lato la comunicazione massmediatica si rivela sempre di più per il suo carattere, non so dire se degenere o necessario. La comunicazione di cui generalmente oggi si parla è, in realtà, iscrivibile nell’ambito di quell’agire che Jürgen Habermas definisce come «non comunicativo». Subdolamente, però, essa continua ad autodefinirsi comunicazione. Ancora più subdolamente, nel momento in cui fa proprio l’attributo digitale e mette in scena la stucchevole retorica del Web 2.0, si compiace delle sue presunte virtù interattive.
La comunicazione massmediatica, insomma, non ricerca nel destinatario un consenso libero, fondato su argomentazioni convincenti. Essa persegue l’obiettivo di plasmare le percezioni, manipolare le cognizioni e dirigere i comportamenti per ottenere la risposta desiderata. Svincolandosi dalla razionalità, legittima le spiegazioni più incoerenti.
Dall’altro lato la comunicazione invade sfere che non le sono proprie e le corrompe. Conosciamo i politici-comunicatori, i manager-comunicatori, gli scrittori-comunicatori e gli artisti-comunicatori. Figure che, a furia di inseguire l’ideale del bravo comunicatore, sono diventati pessimi politici, manager e artisti. In tempi più recenti, poi, ci siamo imbattuti nel papa-comunicatore e nel virologo-comunicatore. In tutti i casi il consenso viene costruito sulla base di logiche comunicative, che prevaricano i rispettivi e specifici statuti della politica, della scienza, dell’impresa, dell’arte e della religione. Ogni cosa è giudicata per le sue qualità comunicative.
Ecco perché è opportuno che ci occupiamo di comunicazione, cara M*. Dobbiamo curarla dai suoi malanni e ricondurla entro l’alveo che le è proprio. Ti chiedo: siamo ancora capaci di pensare la comunicazione non come esercizio di una violenza, ma come forma di comprensione della realtà che nasce dal riconoscimento intersoggettivo? E ancora: riusciamo ad arginare la sua forza straripante e a sottrarre la scienza, la politica e la poesia dalle sue grinfie? La terapia, io credo, passa attraverso la cura del linguaggio. Ed è di questo che soprattutto vorrei parlarti.
Moralismo o etica della comunicazione?
Anticipo due obiezioni che ti vedo già formulare.
La prima riguarda il rischio del moralismo di una posizione simile. Ebbene, sono consapevole di correre questo rischio. A me però non interessa fare la morale alla comunicazione. Voglio semmai capire quali siano le condizioni presupposte da una comunicazione eticamente fondata. Habermas, insieme a Karl Otto Apel, era giunto a identificare alcune pretese universali, dotate di un valore etico oltre che logico: il rispetto della situazione argomentativa (giustezza), il rispetto della realtà dei fatti (verità), il rispetto delle proprie opinioni (veridicità) e il rispetto dei protocolli linguistici condivisi (comprensibilità).
Certo, l’universalità di tali pretese è problematica. Il pluralismo morale della nostra società e la crisi della metafisica mettono in dubbio la possibilità di un fondamento universale. Tuttavia – osservano Habermas e Apel – proprio per la loro natura formale e non contenutistica, le leggi della comunicazione argomentativa possono essere accolte da tutti. Per quanto universali, le pretese del discorso etico sono ideologicamente non impegnative. Nella loro debolezza sta la loro forza.
La seconda obiezione, per me più seria, potrebbe riferirsi al fatto che i media non sono eliminabili e che, dunque, non si può pensare la comunicazione solo nei termini di un processo dialogico, nel quale le persone sono impegnate a intendersi, come sembra suggerire Habermas. Concordo sul punto: Habermas si occupa della comunicazione argomentativa e trascura i media. Egli descrive la comunicazione come se i media non esistessero. Ma questo, io penso, è un motivo in più per proseguire gli studi sulla comunicazione. Abbiamo bisogno di comprendere in che modo i media agiscano in quanto mediatori fra posizioni non reciproche.
Sybille Krämer, che critica acutamente le posizioni di Habermas, è chiara in proposito: i media non trasformano in identità la differenza fra coloro che vogliono mettersi in comunicazione. Eppure essi si pongono come intermediari, messaggeri e traduttori. In ciò appaiono tutt’altro che marginali.
Il lavoro da fare è molto, come vedi. Sei pronta a cominciare?