Il social reading funziona?

Riflessioni sui protocolli di misurazione dell’impatto delle nuove pratiche di lettura in comunità

Il seguente testo è la trascrizione dell’intervento su social reading e strumenti di valutazione dell’impatto della didattica, che ho presentato in forma preregistrata al Macerata Festival of Humanities il 29 settembre 2022 nella sessione A più voci, a più mani: teorie e pratiche della lettura e della scrittura collettive dal medioevo all’età di Internet. Sullo stesso tema rimando anche a Lettura profonda: non buttare il digitale con l’acqua sporca.

Lectio: la lettura come performance

Buongiorno a voi. Mi dispiace non partecipare in corpore al Festival. Spero comunque che questo breve contributo registrato possa fornire qualche spunto utile alla discussione. Senz’altro vi sarete accorti che non sto parlando a braccio, ma sto sonorizzando una serie di appunti preparati ad hoc, i quali appaiono sullo schermo del computer. Lo stesso computer che sto utilizzando per registrare la mia voce e la mia immagine. In un certo senso, anche questa è un’esperienza di social reading: un soggetto condivide con altri soggetti un testo scritto, attraverso un atto di oralizzazione del testo stesso. Tale atto di oralizzazione, certamente influenzato dalle caratteristiche tecniche del mezzo impiegato, è l’enunciazione. Il prodotto di tale enunciazione e l’enunciato che state ascoltando.

Ecco dunque un tipo di lettura che si dà come atto linguistico. C’è di più: ci dovremmo domandare se, mentre udite la mia voce e fate i conti con il mio enunciato, anche voi possiate essere considerati lettori. È come se, con ruoli diversi, voi e io fossimo gettati nella stessa situazione discorsiva e stessimo contribuendo alla stessa performance. Come suggeriva Hans-Georg Gadamer, «in ogni lettura accade […] un’applicatio» (Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen, Mohr, 1960; trad. it., basata sulla seconda edizione del 1965, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 2000, p. 706.

Il social reading, dunque

Alle pratiche della lettura partecipate, che si manifestano nell’ecosistema dei media digitali, dedico una certa attenzione ormai da un decennio, sia sul piano teorico sia su quello della militanza e della sperimentazione. Ho vissuto infatti in prima persona la vicenda della comunità di Twitteratura, che l’amico Iuri Moscardi ha ben ricostruito nel suo intervento, e ho contribuito alla progettazione della app per il social reading Betwyll.

Lo scopo che mi prefiggo è problematizzare il tema della valutazione dell’efficacia delle esperienze didattiche focalizzate sulla lettura in ambiente digitale. In particolare mi concentrerò sul cosiddetto Metodo Twitteratura, concepito per leggere e commentare collettivamente contenuti culturali attraverso Betwyll e Twitter. Cercherò di evidenziare quelli che mi sembrano gli ostacoli, di ordine teorico e pratico, i quali si frappongono tuttora alla definizione di un valido protocollo di misurazione dell’impatto del Metodo Twitteratura. Ritengo che tali ostacoli siano riconducibili a tre fenomeni:

  1. difficoltà nella ricostruzione del banco di prova, ossia dell’ambiente in cui condurre test rigorosi, trasparenti e replicabili a partire da un’ipotesi;
  2. pluralità di fattori che influenzano l’andamento del test;
  3. pluralità delle ipotesi di partenza e quindi degli effetti che si vogliono misurare.

Tutto ciò conduce a mio avviso a una disomogeneità e a una non confrontabilità dei risultati delle ricerche.

Misurare l’impatto del Metodo Twitteratura?

Comincerei con una citazione provocatoria: «l’utilizzo del social network e del Metodo Twitteratura danneggia in maniera rilevante e statisticamente significativa la conoscenza e la comprensione de Il fu Mattia Pascal da parte degli studenti». Sono queste le parole con cui Gian Paolo Barbetta riassumeva il 2 giugno scorso, in un articolo sul «Sole 24 Ore», i risultati di un esperimento randomizzato controllato volto a misurare l’efficacia del metodo in questione. Tali risultati sono presentati in modo più esteso in un working paper dei Dipartimenti e Istituti di Scienze Economiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, pubblicato nel 2019 dallo stesso Barbetta, insieme a Paolo Canino e Stefano Cima (Let’s tweet again? The impact of social networks on literature achievement in high school students: Evidence from a randomized controlled trial, ora anche in «Education Finance and Policy» 2022).

Barbetta sembra non dubitare del fatto che dalla sua ricerca siano emersi «dati empirici robusti» e che dunque «anche nel nostro Paese – solitamente assai restio – [sia] possibile misurare con rigore gli effetti di alcuni protocolli didattici. Queste misurazioni possono avere costi modesti ed essere assai utili nel fornire indicazioni alle politiche» (Gian Paolo Barbetta, Leggere con i social? La comprensione viene penalizzata, «Il Sole 24 Ore», 2 giugno 2022).

Tanto peggio per i fatti, se non si accordano col protocollo

Ora, l’esperimento a cui si allude nell’articolo fu realizzato nel 2017, in occasione di un progetto lanciato presso una settantina di scuole superiori italiane, con l’obiettivo di studiare e discutere il romanzo Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello attraverso l’applicazione del Metodo Twitteratura.

L’approccio adottato dai ricercatori per misurare l’efficacia del Metodo fu quello ben noto dello studio controllato randomizzato (RCT). Esso prevede l’allocazione casuale dei soggetti coinvolti nell’esperimento in due gruppi: il primo gruppo applica il protocollo che deve essere valutato, mentre il secondo gruppo – con funzione di controllo – segue una procedura standard. Tutte le altre variabili sono mantenute costanti nei due gruppi. Già all’epoca contestai non tanto il metodo, quanto l’implementazione imposta da Barbetta e dai suoi colleghi. I tre definirono infatti un protocollo di misurazione così invasivo che deformava l’oggetto dell’indagine. Tanto da tradursi in un’operazione alquanto discutibile sul piano scientifico: l’adattamento forzato dell’oggetto da analizzare al metodo di analisi.

In particolare, per condurre lo studio controllato randomizzato fu necessario operare su un campione molto ampio (1500 studenti) ed effettuare una serie di misurazioni complesse. Si utilizzarono questionari online, somministrati attraverso la piattaforma Questbase, e si dovette procedere all’identificazione univoca degli studenti mediante codice anonimo individuale. La prima circostanza impose l’onboarding nel progetto – tramite campagna pubblicitaria su Facebook – di un gran numero di insegnanti totalmente a digiuno del Metodo Twitteratura e dunque incapaci di attivare l’esperienza che lo caratterizza. I questionari online, poi, furono vissuti dai ragazzi che partecipavano al progetto di lettura come intrusivi, e dunque generarono in molti casi resistenza e sabotaggio.

Insomma, il Metodo Twitteratura fu sacrificato sull’altare del protocollo di analisi. Qualunque cosa Barbetta, Canino e Cima abbiano misurato con il loro studio, non è il Metodo Twitteratura, per la semplice ragione che nel corso del progetto di lettura del Fu Mattia Pascal di Pirandello tale metodo fu in larga misura disatteso e vanificato. Sono cose che capitano, quando ci si innamora a tal punto di un protocollo di ricerca da piegare ad esso la natura dell’oggetto indagato.

Barbetta dovrebbe sapere che il modello di analisi della ricerca empirica in campo sociale non deve essere solo robusto. Deve essere anche non intrusivo. Il rischio, altrimenti, è di generare epifenomeni attraverso l’analisi. Ciò avviene in due modi. In primo luogo, perché l’oggetto, sentendosi osservato, modifica il proprio comportamento standard. In secondo luogo, perché il ricercatore forza alcune variabili dell’osservazione, con lo scopo di renderle processabili all’interno del modello.

Insegnare a leggere, educare alla lettura, promuovere i libri

Ciò non di meno, incidenti di percorso come quello appena descritto non possono costituire un alibi. Non dovremmo rinunciare a porci l’obiettivo di definire procedure robuste per misurare l’impatto dei metodi e degli strumenti che adottiamo nell’ambito della didattica. Nella fattispecie, ci riferiamo all’educazione alla lettura e al ruolo che i media digitali possono giocare in questo ambito. C’è un sentimento diffuso, ma forse anche un po’ vago, riguardo al presunto deficit di efficacia degli approcci pedagogici tradizionali. Nel 2020 Fondazione Cariplo promosse un’indagine, consistente nella consultazione di una cinquantina di esperti mediante metodo Delphi. Il panel di intervistati identificò nella mancanza di efficaci politiche scolastiche di educazione alla lettura la principale causa della scansa propensione alla lettura degli italiani.

Ma che cosa significa «educazione alla lettura»? Certamente non vuol dire «insegnare a leggere». PISA 2009 definisce la competenza di lettura nei seguenti termini:

Capacità di comprendere e utilizzare testi scritti, di riflettere su di essi e di impegnarsi con testi scritti, per raggiungere i propri obiettivi, sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità e svolgere un ruolo attivo nella società. (PISA 2009 Assessment Framework. Key competencies in reading, mathematics and science, Paris, OECD, 2009, p. 23)

Faccio notare, in via incidentale, che l’OECD parla di reading literacy e non di reading competence. In ogni caso possiamo ipotizzare che insegnare a leggere nel modo giusto predisponga all’abitudine e al gusto per la lettura. Possiamo cioè ritenere che la competenza della lettura, la quale comprende l’atto fisico di decodifica dei segni e l’insieme delle operazioni cognitive svolte per la comprensione del significato, costituisca il presupposto per una cultura della lettura. Ma il passaggio dalla literacy all’habit non mi sembra automatico. E senza habit, come sappiamo, si rischia anche di scontare fenomeni di analfabetismo di ritorno.

D’altra parte, qual è il modo giusto per insegnare a leggere? Neppure su questo vi è un consenso diffuso. Pensiamo alle ricorrenti polemiche intorno all’approccio fonologico, fondato sulle connessioni fra scritto e parlato. O alle ben fragili fondamenta scientifiche del cosiddetto Metodo Globale – ancora oggi preso in considerazione, specie nel mondo anglosassone – basato sulla convinzione che la competenza di lettura si sviluppi naturalmente. Il fatto è, come osserva Mark Seidenberg, che esiste una discrepanza fra le convinzioni pedagogiche, che poi si consolidano in vere e proprie scuole, e le conclusioni sull’apprendimento della lettura raggiunte oggi per via empirica dalla ricerca di base nell’ambito delle neuroscienze (Language at the Speed of Sight: How We Read, Why So Many Can’t, and What Can Be Done About It, New York NY, Basic Books, 2017; trad. it. Leggere. Una scienza sottovalutata, tra teoria e pratica, Roma, Treccani, 2021).

Fra MIUR e Commissione Europea

Nel 2016 il Metodo Twitteratura è stato inserito dalla Commissione Europea tra le buone pratiche per la promozione della lettura in ambiente digitale. Due anni dopo, nel 2018, il MIUR ha collocato il Metodo Twitteratura nel curriculum di educazione civica digitale Generazioni Connesse. Ecco dunque altri due contesti di applicazione del nostro ragionamento relativo all’efficacia dell’uno e dell’altro approccio alla lettura. E non solo nell’ambito del social reading. Da un lato il fenomeno da misurare potrebbe consistere nella capacità di contribuire a quella che la Commissione Europea chiama «promozione della lettura». La quale, io credo, non coincide con l’educazione alla lettura, perché si può benissimo promuovere anche una lettura, per così dire, «maleducata».

Dall’altro lato si tratterebbe di capire quale contributo fornisca, ciascun metodo, all’educazione civica digitale, o digital literacy. Le due questioni si intersecano. Dovremmo infatti stabilire se l’unica lettura a cui vale la pena di educare i cittadini di domani e che dunque ha senso promuovere sia quella dei libri di carta, o se invece non sia il caso di fornire alle future generazioni le competenze e gli strumenti critici di cui c’è bisogno per leggere nell’ecosistema dei media digitali (non penso solo all’esperienza dello schermo, ma anche a quella dell’audiolibro).

Com’è noto, la proposta di Maryanne Wolf è quella di un «cervello bi-alfabetizzato» (Reader, Come Home: The Reading Brain in a Digital World, New York NY, Harper, 2018; trad. it. Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale, Milano, Vita e Pensiero, 2019). E nella stessa direzione si muove Naomi Baron, invitando tuttavia a non focalizzarsi solo sulla questione del medium, ma anche e soprattutto su quella della situazione di lettura (How We Read Now: Strategic Choices for Print, Screen, and Audio, New York NY, Oxford, 2021).

Sintetizzando, distinguerei almeno quattro fenomeni:

  • insegnare a leggere;
  • educare a leggere;
  • promuovere la lettura (dei libri);
  • formare dei lettori bi-alfabetizzati.

Quando concepimmo la strana idea di usare Twitter per accompagnare l’esperienza della lettura dei classici, dieci anni fa, nulla di tutto questo ci era chiaro. Solo strada facendo riflettemmo sulla possibilità di usare il nostro approccio a supporto della didattica, lo consolidammo in un metodo e decidemmo di diffondere la pratica ad esso connessa nelle scuole e nelle università. Poi venne Betwyll e infine si concretizzò la collaborazione con l’editore Pearson, che in tempi più recenti ha portato alla realizzazione di una nuova app di social reading decisamente orientata all’utilizzo nel contesto della didattica. Abbiamo dunque uno stesso metodo, declinabile però attraverso esperienze su tre piattaforme diverse:

  • Twitter
  • Betwyll
  • Pearson Social Reading

Twitter, Betwyll e Pearson Social Reading sono dispositivi, nel senso che Michel Foucault attribuiva a tale espressione Oggi il sostantivo dispositivo è usato per lo più come sinonimo di apparecchio. Si dice dunque che uno smartphone, un laptop o un e-reader sono dispositivi. Qui con il termine dispositivo mi riferisco invece a un sistema articolato, fatto di elementi hardware e software, ma anche di discorsi e relazioni, capace di disciplinare il comportamento dei soggetti che agiscono nel suo contesto. Non parlo di utenti, perché il dispositivo non è uno strumento che si usa. Semmai è un ambiente nel quale si è immersi (il che, fra l’altro, è abbastanza coerente con la concezione di medium sviluppata da Marshal McLuhan).

L’agency del dispositivo

I soggetti che si muovono in tale ambiente sono pertanto definibili come attori. Nel contesto del Metodo Twitteratura, il dispositivo è costituito dall’organizzazione dell’esperienza e dall’orientamento del discorso didattico. Le potenzialità di ogni strumento andrebbero apprezzate tenendo conto del campo esperienziale abilitabile. Nell’ambito della didattica, dovremmo progettare (e valutare) non gli apparati tecnici, ma le esperienze.

Il dispositivo ha la sua agency, ossia ha il potenziale per far accadere le cose e orientare il comportamento dei soggetti. Tuttavia i soggetti agiscono con qualche grado di libertà e dunque esperiscono comportamenti eterogenei. Ci preoccupiamo molto, in questa epoca, di ciò che le piattaforme fanno alle persone, ma più raramente ci domandiamo che cosa le persone fanno con le piattaforme. E ciò vale anche per le piattaforme di social reading. Le caratteristiche del dispositivo orientano il comportamento di lettura, ma non in senso meccanicistico. Con lo stesso dispositivo sono possibili diversi comportamenti di lettura, più o meno efficaci. Domandarsi in che misura le caratteristiche del dispositivo influiscano sull’efficacia della lettura è molto di moda.

Meno frequente è che ci si interroghi sulla relazione fra comportamento di lettura ed efficacia della stessa, mentre io partirei proprio da tale questione. In proposito, segnalo uno studio interessante, di una decina di anni fa: Sara J. Margolin et al., E-readers, Computer Screens, or Paper: Does Reading Comprehension Change Across Media Platforms?, «Applied Cognitive Psychology», 27, 2013, pp. 512-519. Dalla ricerca di Margolin e dei suoi colleghi non emergevano sostanziali differenze dal punto di vista della comprensione di testi narrativi o espositivi, a prescindere dal supporto utilizzato (carta, computer e e-reader). Si evidenziava piuttosto il fatto che alcuni comportamenti di lettura, a prescindere dal supporto, possono influenzare la capacità di decodificare i testi. Lo studio considerava in particolare i seguenti comportamenti:

  • seguire il testo con un dito o con il puntatore del mouse;
  • sottolineare il testo;
  • rileggere il testo;
  • annotare il testo e prendere appunti;
  • vagare durante la lettura;
  • leggere il modalità endofasica o – viceversa – esofasica;
  • muovere le labbra durante la lettura.

Ebbene, i risultati dell’analisi portavano a concludere che, nel caso di testi di tipo espositivo, il ricorso a suddetti comportamenti non ha un impatto significativo sul livello di comprensione, mentre ce l’ha nel caso di lettura di testi narrativi.

Addio a Twitter

In sostanza, la migrazione della comunità da Twitter verso ambienti progettati in modo specifico per leggere e commentare collettivamente un testo, come Betwyll e Pearson Social Reading,  ha le sue ragioni. Tuttavia pratiche come quelle riconducibili al Metodo Twitteratura non si esauriscono nell’uso dell’una o dell’altra piattaforma. Esse sono piuttosto il prodotto di una miscela di ingredienti, non tutti di natura tecnologica. Sarebbe un errore ritenere che il design dell’applicazione utilizzata per condividere l’esperienza di lettura costituisca il più importante di questi ingredienti. Certo, il design dell’applicazione è uno dei tanti fattori in gioco, ma agisce dentro un processo tutt’altro che deterministico.

Gli esercizi didattici di twitteratura sono capaci di esibire esiti molto diversi a partire da una condizione iniziale solo in apparenza replicabile. Più della tecnologia, contano le motivazioni dei singoli, il loro profilo psicografico, le competenze di partenza, le dinamiche informali all’interno della comunità, la preparazione dei docenti e degli altri facilitatori, il manifestarsi di elementi di disturbo non previsti. Ciascuna di queste concause andrebbe tenuta in considerazione, per evitare di svolgere analisi troppo generiche e pervenire a conclusioni decisamente astratte.

Tanti lettori, tante letture

Il profilo del lettore, in particolare, dovrebbe essere valutato in funzione di diversi parametri: livello di alfabetizzazione, età, contesto culturale di appartenenza, motivazione, stato d’animo, situazione ambientale. Assumiamo infatti che ciascuno di questi parametri sia rilevante rispetto all’efficacia dell’esperienza. Se ho un elevato livello di alfabetizzazione, per dire, la mia capacità di comprensione di un testo è relativamente alta a prescindere dal dispositivo utilizzato. Allo stesso modo, se ho una forte motivazione a comprendere il significato di un testo o a memorizzare il suo contenuto, tenderò a ottenere risultati migliori. Di contro, se sono depresso, fatico a decodificare o a ricordare ciò che sto leggendo. E così via.

Tra tutti i fattori che influenzano le dinamiche e l’esito di un’esperienza di social reading, ci sono ovviamente le caratteristiche del testo al centro di tale esperienza. Il suo impatto andrebbe dunque rapportato anche ai seguenti parametri:

  • tipologia (testo argomentativo, descrittivo, informativo, regolativo, persuasivo o narrativo)
  • lunghezza (testo breve, medio o lungo)
  • scrittura e registro linguistico (aulico, formale, medio, informale o settoriale)
  • contenuti

Quali effetti vogliamo misurare?

C’è infine da dire che, anche quando ci si vorrebbe occupare degli effetti delle pratiche di social reading e della loro misurazione, non sempre ci si riferisce alle stesse cose. Semplificando per ragioni di spazio, possiamo identificare effetti relativi ai seguenti ambiti:

  • memorizzazione del testo
  • comprensione del testo
  • adesione emotiva al testo
  • attivazione di dinamiche sociali
  • sviluppo di empatia

Ciò che intendo sottolineare, in definitiva, è che l’oggetto dell’analisi – l’esperienza di social reading, appunto – è formato da diverse componenti. Ciò pone una sfida metodologica non da poco. Si tratta infatti di capire se e in che modo sia possibile misurare separatamente l’impatto di ciascuno di tali fattori, isolandolo dagli altri. In tal senso la misurazione dovrebbe basarsi forse su un modello multivariato, capace cioè di quantificare l’impatto della variazione simultanea di due o più variabili casuali. Anche volendo semplificare al massimo il modello, dovremmo considerare due variabili: le caratteristiche del dispositivo e il comportamento di lettura.

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