Il CEO di Google e il cittadino all-informed

Magari mette in fila una serie di concetti che ai più potranno sembrare ovvi. Ma l’intervento del CEO di Google Eric Schmidt sul futuro dell’informazione, pubblicato dal Sole 24 Ore di oggi (p. 23), non è privo di una sua empirica lucidità. Ricapitolando, che cosa ci dice Schmidt?
La possibilità per i cittadini di essere informati, grazie a un’offerta ricca di notizie, basata su opinioni diverse e analisi accurate, è essenziale per il buon funzionamento di una democrazia. Il pessimo stato di salute dell’industria dell’informazione, quindi, non deve preoccupare solo chi opera nel settore, ma tutta la società. D’altra parte è vero che pochi giornali sono riusciti fin qui a generare profitto pubblicando i loro contenuti in Internet. Di ciò non ha colpa Google, ma semmai “la compiacenza indotta dai monopoli del passato”, come lo stesso Rupert Murdoch sembra disposto a riconoscere.
Ma come si va configurando il nuovo rapporto fra media e pubblico? E quale ruolo giocheranno i mezzi di informazione tradizionali? In proposito Schmidt offre tre spunti che vale la pena di evidenziare.
Intanto il CEO di Google lascia intendere che la piattaforma attraverso cui principalmente fruiremo delle notizie non sarà la carta, ma neppure il Web. Egli immagina che, entro il 2015, sfoglieremo i giornali digitali su dispositivi portatili molto simili al Kindle di Amazon.
In secondo luogo Schmidt allude al fatto che non consumeremo più il giornale, ma la notizia. Fino a ieri il prodotto era la testata: con la sua identità, i suoi valori e le sue chiavi di lettura. L’acquisto in edicola di un quotidiano era un atto di fiducia nei confronti di un modo di leggere il mondo. Comprando il giornale, delegavamo a un brand parte delle nostre scelte cognitive. Oggi e ancor più domani l’esperienza di consumo consisterà in una selezione personalizzata di notizie, provenienti da più mezzi e assemblate da ciascuno di noi in modo esplicito (con le nostre scelte) o implicito (attraverso filtri automatici attivati dal nostro comportamento). Ci saranno tanti prodotti quanti sono gli utenti.
Le conseguenze sono enormi. Dal punto di vista economico, che piaccia o meno a Murdoch, il potere si sposta inevitabilmente dall’editore all’aggregatore, da chi produce le notizie a chi mette a disposizione gli strumenti per fare news meshup. Dal punto di vista euristico, poi, si diffonde l’illusione di una società priva di gerarchie cognitive. L’idea è che la funzione di gatekeeping svolta dai giornalisti sarà obsoleta, in quanto ciascuno di noi troverà da solo le notizie di cui ha bisogno. Il problema è che, per fare questo, il cittadino – quello che Michael Schudson chiama monitorial citizen – deve disporre di alcune abilità. Deve cioè essere in grado non solo di assorbire l’informazione dalla Rete, ma anche di verificarla attraverso un lavoro di contestualizzazione e valutazione critica. In definitiva deve essere una information literate person (The Good Citizen: a History of American Civic Life, 1998). In mancanza di questa literacy, la selezione personalizzata di notizie produce molto rumore ma poca consapevolezza. Senza buone chiavi di lettura, l’accesso diretto a un patrimonio informativo sterminato non ci aiuta a comprendere il mondo.
Lo stesso Schmidt – ed è il terzo spunto del suo intervento – mitiga questo scenario fatto di cittadini all-informed. Egli ipotizza comunque un ruolo per i giornali tradizionali: “offrire un punto di incontro digitale dove i lettori si scambiano idee”. Per fare questo, però, i giornali devono recuperare una capacità che in parte hanno smarrita: essere specchio fedele di una comunità, sia essa locale o nazionale. Una bella sfida.

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