Da Edward Murrow a Kalispera

Comincio oggi il corso su “Giornalismo e ipertelevisione”, nell’ambito dell’insegnamento esclusivo in Comunicazione digitale e multimediale che curo all’Università di Pavia. Perché un corso su questo tema? Credo che riflettere, oggi, sulle nuove forme di informazione che stanno forse nascendo nel passaggio dalla neotelevisione alla ipertelevisione sia importante. La televisione conta. Non solo nel senso che esercita tuttora un ruolo decisivo come mezzo di informazione e di orientamento del discorso pubblico. Conta soprattutto perché è diventata uno spazio spesso indistinguibile dallo spazio pubblico della politica, cui impone regole e linguaggi. Allo stesso tempo è evidente come la televisione stia cambiando, nel senso che partecipa del processo di convergenza verso un unico metamedium, processo guidato dal paradigma tecnologico digitale e dalla cultura del software.

Il corso vuole approfondire diversi fenomeni: il cortocircuito fra TV e politica, che solo per provincialismo pensiamo circoscritto al nostro paese e legato al profilo particolare di Silvio Berlusconi, il peso di Internet fra retorica del citizen journalism e ruolo effettivo dei network informali (si pensi a quanto hanno contato Facebook e Twitter nelle recenti vicende egiziane), la crisi del modello di reporting fondato sulla posizione imparziale del giornalista.  Sul primo fenomeno c’è da segnalare quantomeno l’affermazione di un nuovo emblema: dopo i contratti con gli italiani siglati a Porta a Porta e l’esperienza di Vieni via con me (con i vari Vendola, Bersani, Fini e Maroni al cospetto del duo Fazio-Saviano), abbiamo dovuto vedere l’operazione narrativa costruita da Alfonso Signorini a Kalispera intorno alla figura di Ruby. Operazione magistrale, capolavoro di storytelling che ha conferito a Karima El Mahroug una dignità di personaggio degna di Cenerentola o Biancaneve: il danneggiamento (“A nove anni ho subito il primo trauma della mia vita: sono stata violentata da due zii”), il divieto infranto (“A 12 anni decisi di cambiare religione e mio padre mi punì lanciandomi una padella di olio bollente”), la fuga da casa, il salvataggio da parte di un donatore (“Silvio Berlusconi non mi ha toccato nemmeno con un dito. Lo stimo come persona e per avermi aiutato senza alcun tornaconto: [è un uomo] disposto ad ascoltarmi, a differenza di tutti gli psicologi che ho incontrato negli anni e che sono pagati per farlo”), il matrimonio (“che è anche in vista. Da due mesi precisi riesco a essere sincera con la persona che mi sta accanto”). C’è tutto l’armamentario di Propp, insomma.

Ma – lo ripeto – non stiamo parlando di un problema italiano. Altrimenti negli Stati Uniti non avremmo i casi di Stephen Colbert, Oprah Winfrey, Glenn Beck e Jon Stewart (di quest’ultimo si segnata la recente puntata dedicata al nostro presidente del consiglio e alle malinconie del bunga bunga).

Sul dilemma fra narrazione e coinvolgimento valga la bellissima puntata dello scorso 16 febbraio di Alaska, rotocalco di Radio Popolare scritto e condotto da Marina Petrillo (dal blog di Alaska è possibile accedere al podcast). La Petrillo ci ricorda che il dibattito, almeno negli Stati Uniti, è maledettamente serio. Certo anche lì assume a volte una piega grottesca. Succede così che l’anchorman di CNN Anderson Cooper si prenda gli sberleffi di James Rainey, collega del Los Angeles Times. Preso in giro, Cooper, per avere abbandonato il giornalismo freddo e distaccato solo nel momento in cui – il 2 febbraio scorso, al Cairo – è stato oggetto di un’aggressione.

Intanto su YouTube spopola un video di Tamer Shaaban in cui le immagini più forti della cosiddetta “rivoluzione egiziana” sono messe insieme con il collante di una colonna sonora ad alto impatto emotivo. Shaaban, che non vive nei sobborghi del Cairo ma ad Atlanta, dove studia user interface design, ha fatto un’operazione furbetta. Il linguaggio del reportarge e quello del videotrailer si fondono in un unico prodotto, dove vedo poco giornalismo e molto intrattenimento. Dove è la notizia? Non tanto nei contenuti del video, quanto nelle sue proprietà virali, nella sua capacità di mettere insieme il pubblico di YouTube e quello di CNN o Al Jazeera.

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