Dalla ricostruzione alla ri-costruzione.
Nel mondo digitalizzato la copia ha smesso da avere una posizione subordinata rispetto all’originale. La copia può essere indistinguibile dall’originale. E quest’ultimo perde quindi le sue prerogative di originalità. Ma la copia può anche essere meglio dell’originale, nel senso che ce lo restituisce arricchito, restaurato, corretto.
Infine, quella della copia può diventare una poetica. Andate a vedervi la nuova mediazione digitale di Peter Greenaway, “Paolo Veronese. Le Nozze di Cana”, allestita nel Refettorio Palladiano di San Giorgio Maggiore, a Venezia. L’artista gallese sviluppa da tempo l’idea della performance come spettacolarizzazione critica, come ri-produzione di uno luogo comune della classicità. Idea che si è concretizzata in un ciclo di “viste”, inaugurato nel 2006 con Rembrandt e proseguito l’anno successivo con Leonardo (ricordate il lavoro compiuto sull’Ultima Cena a Milano?) Ma in questo caso Greenaway ha fatto di più: ha sovrapposto un ulteriore livello narrativo a quella che è già una copia.
È noto infatti che l’originale di Veronese non si trova a Venezia. La tela è conservata al Louvre di Parigi, dove giunse insieme ad altri risarcimenti di guerra pretesi da Napoleone dopo il trattato di Campoformio. Per trasportarlo oltralpe, i francesi spezzettarono il dipinto in strisce orizzontali. Si può dire che compromisero irreparabilmente l’originale. Da quasi due anni, però, a San Giorgio si può ammirare una copia del dipinto. L’opera è stata eseguita da Adam Lowe (un’autorità in fatto di mediazione digitale) a partire da 2700 scatti fotografici e da un lavoro di acquisizione durato due mesi, per il quale è stato impiegato uno scanner progettato ad hoc. Una descrizione dettagliata dell’intervento è disponibile sul sito di Factum Arte, organizzazione di cui Lowe è direttore.
Ora Greenaway ha realizzato a San Giorgio una ri-fabbricazione digitale della copia di Lowe: lettura critica non dell’originale rinascimentale, quindi, ma della sua restituzione concepita due anni fa. La copia della copia, che si dà come percorso creativo del regista e diventa – essa stessa – l’originale. Greenaway è l’artista-hacker, che si pone sullo stesso piano dell’artista-owner, se non addirittura su un piano più alto. La sua visione delle Nozze ci restituisce quello che mancava: il suono della scena. Una colonna sonora prosaica e in stile cortigiano, che si sovrappone alla pittura. La tela di Veronese – ossia: la copia di Lowe – volta le spalle a un destino che la vorrebbe muta e bidimensionale, si proietta nello spazio palladiano e lo inonda di voci. Diventa teatro. Oggi, di fronte alla fabbricazione veneziana di Greenaway, ho pensato al Campiello di Goldoni.
La copia conquista – per via elettronica – un nuovo statuto. Non tende più alla conformità rispetto all’originale. Il suo scopo è la trascendenza. È l’apologia della copia, la rivincita sull’originale. Ma è anche la conferma che l’immagine non è più testimone di verità. L’immagine elettronica confonde l’originale con la copia, il vero con il falso. L’esperienza artistica contemporanea è chiamata a fare i conti con questo nodo. C’è chi, come Greenaway, si accontenta di proclamare la morte del cinema. E c’è chi, viceversa, è tormentato da una simile prospettiva. Basti pensare all’inesausta riflessione di un cineasta come Wim Wenders. Già nel 1973 Wenders metteva in scena il conflitto fra la visione naturale nel paesaggio e la sua rappresentazione istantanea (in una serie infinita di Polaroid prive di senso), traendone conclusioni alquanto scettiche: “Mai uguale a quello che si vede”, dice il protagonista di Alice nelle città, confrontando il soggetto di una delle sue Polaroid con lo stesso soggetto visto attraverso i propri occhi. Qui ci sembra di cogliere un’allusione quasi profetica, un riferimento alla propensione dell’immagine – oggi del tutto evidente – a separarsi dal nostro corpo, a porsi come altro rispetto a noi. “Ogni immagine ti tormenta, vuole qualcosa”, dice ancora il regista tedesco.
Quindici anni più tardi Wenders torna sul tema, nel film Appunti di viaggio su moda e città: “Abbiamo imparato a confidare nell’immagine fotografica, ma possiamo fidarci dell’immagine elettronica? Con la pittura tutto era semplice: essendo unico l’originale, ogni copia era una copia, cioè un falso. Con la fotografia e poi col cinema tutto si è fatto più complesso: l’originale è un negativo e non può esistere senza la copia, tutt’altro: ogni copia è un originale. Ora, con l’immagine elettronica, e presto con quella digitale, non c’è più negativo e tantomeno positivo. L’idea stessa di originale decade. Tutto è copia. Ogni distinzione sembra puro arbitrio.”
Io penso più semplicemente che sia morto il modo tradizionale di fare giornalismo.
Oggi si potrebbe dare più attenzione alla comunicazione, ma ancor più dedicare attenzione a quali sistemi cognitivi i ragazzi (presenti ma sopratutto futuri lettori)possano utilizzare per recepire e rielaborare le info che gli vengono ormai trasmesse da ogni fonte e in diversi modi.Il tempo del “io dico io so e voi obbedite o fate, anche se dietro hanno sicuramente un metodo , è ormai al termine.Oggi è più importante che si sia sicuri di trasferire una info,un messaggio, che creare, o addirittura imporre, un modo comune attraverso il quale tutti debbano capire.