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Tecnologia e possibilità

«Most of what we assume to be immutable has been, in other times and places, arranged quite differently, and therefore, […] human possibilities are in almost every way greater than we ordinarily imagine».

(David Graeber, Possibilities. Essays on Hierarchy, Rebellion, and Desire, Oakland CA, AK Press, 2007, p. 1).

 

E se la tecnologia fosse una possibilità, più che un destino?

Com’è noto l’idea della tecnica come destino del mondo deve molto al pensiero di Martin Heidegger. La tecnica – o, per meglio dire, l’essenza della tecnica, che è cosa diversa dalla tecnicità – costituisce per Heidegger un modello di conoscenza. La tecnica è un particolare tipo di razionalità, attraverso la quale le cose si rivelano. Ma, costringendole alla presenza e all’oggettivazione, la tecnica non lascia le cose come sono. Essa le rende processabili, calcolabili e controllabili. Anche l’essere umano è oggetto di questo processo. La forza dell’impianto («Gestell») determina il destino dell’essere umano. In questo senso, la tecnica è anche un potere. È la manifestazione di un dominio, che condiziona la nostra autonomia (Martin Heidegger, Die Frage nach der Technik. Wissenschaft und Besinnung, in Vorträge und Aufsätze, Pfullingen, Verlag Günther Neske 1954; trad. it. La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976).

Parlare del potere della tecnica è diventato ancora più importante, in questa fase storica. Oggi siamo testimoni di un potere immenso, apparentemente incontrollabile: il potere delle biotecnologie, della robotica, degli algoritmi. Lo strapotere dei nuovi media, che a volte sembrano agire iuxta propria principia, addirittura fuori dal controllo di chi li ha progettati e di chi li possiede. Di fronte alla potenza di Facebook, lo stesso Mark Zuckerberg appare impotente.

Più in generale, tendiamo ad assumere che il progresso tecnologico si muova in modo costante e inesorabile. In passato questa dinamica è stata rappresentata secondo un modello di tipo lineare. Da un po’ di tempo ci siamo convinti che la crescita segua piuttosto una curva esponenziale, con tutto il disagio che deriva da questa accelerazione (se non vi è chiara la differenza fra crescita lineare e crescita esponenziale, andate qui). In ogni caso ci sembra di assistere a un fenomeno deterministico, ossia indipendente dagli accidenti della storia e dalle scelte degli esseri umani. La tecnologia progredisce senza tentennamenti, che ci piaccia o meno.

David Graeber si chiede se una simile idea sia del tutto corretta (Possibilities. Essays on Hierarchy, Rebellion, and Desire, Oakland CA, AK Press, 2007, p. 322). Si è soliti affermare, per esempio, che la globalizzazione sia il prodotto di una combinazione di innovazioni tecnologiche senza precedenti. E se invece fossimo di fronte a un rallentamento o addirittura a un’involuzione? Per rispondere a tale domanda dovremmo trovare un accordo sul modo di misurare oggettivamente il progresso tecnologico. Graeber propone il seguente criterio: la tecnologia progredisce nella misura in cui realizza le aspettative delle persone.

Se accettiamo questa prospettiva, come dobbiamo valutare il quadro della seconda metà del secolo scorso? Fino agli anni Cinquanta la tecnologia ha certamente concretizzato molti dei sogni coltivati dall’umanità e celebrati dalla fantascienza agli albori del Novecento: la radio, gli apparecchi per volare, i trapianti di organi, le immagini in movimento, i grattacieli. Viceversa – si domanda Graeber – quali, fra le chimere sognate a partire dagli anni Sessanta, sono diventate realtà oggi? È interessante notare che, tredici anni dopo la pubblicazione di Possibilities, la risposta a questa domanda non può essere la stessa. Certo, non abbiamo (ancora) trovato il modo di compiere viaggi interplanetari né di teletrasportare le persone o le cose. Tuttavia altre “conquiste”, come la clonazione di un organismo vivente o la robotica domestica, sono diventante quantomeno plausibili. Per non parlare dell’idea di un computer con il quale sia possibile dialogare come facciamo con un essere umano. Dunque diventa difficile, almeno da questo punto di vista, sottoscrivere le drastiche conclusioni di Graeber, il quale nel 2007 aveva invece buon gioco a contestare le previsioni formulate da Alvin Toffler nel suo Future Shock (New York NY, Random House, 1970; trad. it. Lo shock del futuro, Milano, Rizzoli, 1971), sostenendo che il progresso tecnologico avesse smesso di accelerare proprio a partire dall’anno di pubblicazione dell’influente libro di Toffler.

Ciò che appare essenziale, nel ragionamento di Graeber, è però altro. L’antropologo americano sembra qui schierarsi contro un determinismo che definiremmo ingenuo, ossia contro l’idea riduzionista in base alla quale la tecnologia sarebbe la causa meccanica delle trasformazioni sociali. Spesso il determinismo tecnologico è associato, un po’ precipitosamente, alla figura di Marshall McLuhan. Certo McLuhan, sulla scia di Harold Innis (Empire and Communications, Oxford, Oxford University Press, 1950, trad. it. Impero e comunicazioni, Milano, Meltemi, 2018), ci ha mostrato in che modo le tecnologie – e, nello specifico, le tecnologie della comunicazione – influenzino non solo la cultura di una società ma anche la struttura mentale delle persone. Ma la posizione di McLuhan è molto meno meccanicista di come in genere la si rappresenti. I rapporti fra cause ed effetti non sono mai analizzati dal grande massmediologo canadese in termini meccanici, quanto piuttosto come manifestazioni antropologiche e biologiche.

I media come organismi viventi, potremmo dire. Va chiarito che quella fra il sistema dei media e l’ecosistema biologico è ben più di un’analogia. Per comprenderne meglio il senso, dobbiamo restare nell’ambito degli studi che hanno preso le mosse dall’immensa eredità di McLuhan, la quale è per molti versi ancora da inventariare e illuminare. In particolare dobbiamo a McLuhan l’attenzione alla dimensione intermediale, che è alla base dell’ecologia dei media: «No medium has its meaning or existence alone, but only in constant interplay with other media». (Marshall McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, Toronto, McGraw-Hill, 1964; trad. it. Capire i media. Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1976, p. 43).

Si tratta dunque di superare un modello che riduce la storia dei media a una successione lineare di tecnologie, ciascuna delle quali viene considerata isolatamente, senza particolare riguardo per le interazioni e i condizionamenti reciproci. Partendo dalle considerazioni di McLuhan, lo spagnolo Carlos A. Scolari ha sviluppato negli ultimi anni una cornice teoretica di grande interesse (Media Evolution: Emergence, Dominance, Survival, and Extinction in the Media Ecology, in “International Journal of Communication”, 7, 2013, pp. 1418-1441). Tale cornice permette di integrare in un modello coerente categorie fin qui isolate, come quella di rimediazione («remediation»), messa a punto da Jay David Bolter, Richard Grusin (Remediation: Understanding New Media, Cambridge MA, the MIT Press, 1999; trad. it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini e Associati, 2003). La storia dei media, peraltro, si è a propria volta evoluta. Lisa Gitelman, per esempio, si è incaricata di fare giustizia dello stucchevole mito dei cosiddetti “nuovi media”, fondato sull’equivoca contrapposizione fra nuovo e vecchio (Always Already New: Media, History, and the Data of Culture, Cambridge MA, The MIT Press, 2006). Tale mito relega il passato a mera aneddotica, impedendo di riconoscere tutti i modi in cui il passato stesso si riverbera nel presente. «All media were once new media». (Lisa Gitelman, Geoffrey B. Pingree, a cura di, New Media, 1740-1915, Cambridge Ma, The MIT Press, 2003, p. XI)

Da un lato il modello di Scolari si propone in alternativa a quello lineare di W. Russel Neuman (Media, Technology, and Society: Theories of Media Evolution, Ann Arbor MI, University of Michigan Press 2010), dall’altro esso rielabora, semplificandolo, lo schema di Sam Lehman-Wilzig e Nava Cohen-Avigdor (The natural life cycle of media evolution: Intermedia struggle for survival in the Internet age, in “New Media and Society”, 6, 2004, pp. 707-740, DOI: 10.1177/146144804042524). Lehman-Wilzig e Cohen-Avigdor identificano sei fasi evolutive: 1) nascita, 2) penetrazione nel mercato, 3) crescita, 4) maturazione, 5) resistenza difensiva, 6) adattamento, convergenza o obsolescenza. Scolari riduce le fasi a tre: 1) emergenza, 2) supremazia, 3) sopravvivenza o estinzione. Soprattutto, lo studioso spagnolo integra la dimensione diacronica con quella sincronica, rendendo il modello dinamico e compiutamente intermediale. Come si vede nello schema sottostante, infatti, ciascun medium intercetta gli altri media in fasi diverse dei rispettivi percorsi evolutivi. Così può accadere che un medium, il quale si trova nella sua fase emergente, ne incontri un altro quando quest’ultimo si trova in fase declinante. L’ecosistema dei media si configura in tal modo come una rete di relazioni.

media understood as a network
Media understood as a network, in: Carlos A. Scolari, Media Evolution: Emergence, Dominance, Survival, and Extinction in the Media Ecology, in “International Journal of Communication”, 7, 2013, pp. 1418-1441.
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