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Didattica a distanza: disadattamento, frustrazione, opportunità

Non chiederti che cosa la didattica a distanza stia facendo alla tua classe, ma che cosa tu e la tua classe potete fare con la didattica a distanza.

Da più parti ci si preoccupa, con toni allarmati, di quello che la didattica a distanza stia facendo ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze. In genere il sospetto è che la DAD non comporti per loro nulla di buono. C’è chi, parla di un anno perduto. Chi, addirittura, preconizza l’avvento di una generazione di disadattati. L’apocalisse, praticamente. Mi sembra una lettura alquanto ingenua delle cose, fondata sull’idea che vi sia un rapporto meccanicistico di causa-effetto fra l’uso di determinati artefatti e la nostra esperienza individuale e sociale. Come sempre, i termini della questione andrebbero invertiti. Non dovremmo chiederci che cosa la DAD fa ai nostri ragazzi, ma che cosa i nostri ragazzi e noi – impegnati a vario titolo nel mondo dell’insegnamento – facciamo con la DAD.

E questo per due fondate ragioni.

Contro la logica dell’impatto

La prima è che – anche se accettassimo una visione riduzionista della DAD, ossia ci ponessimo in una prospettiva che tende a ridurre la DAD ai suoi supporti tecnologici – occorre ricordare che il determinismo tecnologico ha fatto il suo tempo. Le tecnologie, in particolare le tecnologie della comunicazione, non sono oggetti provenienti dallo spazio interstellare, che piombano sulla Terra come farebbe un asteroide. Non sono cioè corpi estranei alla nostra società e alla nostra cultura. Semmai è vero il contrario: è l’evoluzione sociale a determinare le trasformazioni tecnologiche e a selezionare le tecnologie più adatte.

Scriveva Raymond Williams, a proposito della televisione, già nel 1974: «[…] spesso discutiamo, con passione, di questo o quell’effetto della televisione, dei comportamenti sociali, delle condizioni culturali e psicologiche alle quali la televisione ci ha condotto, senza sentirci obbligati a domandarci se sia ragionevole descrivere una qualsiasi tecnologia come causa, o, se la pensiamo come causa, che tipo di causa essa sia, e in quali relazioni con altri tipi di cause» (Television, Technology and Cultural Form, London, Collins, 1974, traduzione mia).

Le caratteristiche intrinseche di una tecnologia non ne determinano automaticamente usi ed effetti: tecnologia, società, storia, cultura, istituzioni, contenuti, meccanismi di distribuzione, politica ed esperienza sono dimensioni interconnesse. Per questo la stessa tecnologia può avere esiti istituzionali anche molto diversi. Insomma: chi si agita per gli effetti determinati da Zoom, dai tablet e dalle LIM sui nostri ragazzi, forse non riflette abbastanza sugli usi possibili di tali strumenti.

Non gettare la didattica a distanza con l’acqua sporca

La seconda ragione per cui dovremmo essere molto cauti a parlare di effetti della DAD in modo deterministico è che la DAD stessa non si può ridurre ai suoi artefatti tecnologici: piattaforme di videoconferenza, aule virtuali, supporti elettronici per la lettura e la scrittura ecc. Se la didattica identifica l’insieme delle teorie e delle pratiche relative all’insegnamento, la didattica a distanza si dovrà occupare delle possibili declinazioni teoriche e pratiche dell’insegnamento a distanza. Il che, in linea di principio, nulla stabilisce di definitivo relativamente agli strumenti. Si può immaginare una didattica a distanza senza Zoom e addirittura senza computer. Così come, di converso, si può ipotizzare una didattica in presenza supportata dal computer (a me capita di praticarla). Penso pertanto che, invece di gettare la DAD con l’acqua sporca, dovremmo preoccuparci di costruire le conduzioni per una DAD efficace, condividendo le pratiche migliori e, soprattutto, innovando nel metodo prima che nella tecnologia.

Usare le nuove tecnologie per supportare la didattica di sempre – quella a cui ci si è pigramente abituati, nell’illusione che sia la migliore delle didattiche possibili – significa fallire in partenza. Non certo al punto da produrre una generazione di giovani disadattati; ma forse – questo sì – al punto da nutrire una schiera di insegnanti frustrati. Fare didattica a distanza non vuol dire impartire una lezione in videoconferenza, ma ribaltare ruoli e prospettive, cambiare linguaggio, rimodulare i tempi, ripensare il concetto stesso di lezione. Significa, anche, mettere in discussione una visione fin troppo rigida del Programma (con la p maiuscola, eh!), dei compiti in classe, delle verifiche e delle interrogazioni; insomma, della scuola come apparato burocratico di controllo (si vedano le belle riflessioni di Roberto Maragliano).

Intendiamoci: non sono così ingenuo da pensare che tutto ciò sia semplice. Del resto verifico nella mia esperienza tutte le difficoltà del caso. E il risultato raggiunto mi soddisfa ancora poco. Come si dice, ci sto lavorando. Né sto affermando che la DAD sia necessariamente migliore della didattica tradizionale (che cos’è, poi, la didattica tradizionale?). Non lo è, in primo luogo, perché le tecnologie non sono mai neutrali. Quando ragioniamo sugli usi possibili delle tecnologie, dobbiamo sempre pnesare a delle possibilità entro dei limiti. Le tecnologie della CMC (computer mediated communication) comportano una serie di perdite, delle quali i tecnofeticisti sembrano spesso inconsapevoli. Su questi limiti, quanto meno in una prospettiva psicologica e neuroscientifica, ha scritto benissimo Giuseppe Riva qualche mese fa.

Digital divide e digital media literacy

Soprattutto, non sono così distratto da ignorare l’enorme problema del divario digitale di cui soffre il nostro paese. Il quale non ha solo i caratteri del gap infrastrutturale – chi ha accesso alla rete, e chi ne è escluso; chi ha un computer a casa, e chi non se lo può permettere – ma anche e soprattutto culturale: la famosa digital media literacy, che andrebbe istituzionalizzata come insegnamento, al posto della inutilissima lezione di informatica. Un simile divario andrebbe colmato al più presto, magari spendendo bene una parte delle risorse cui dovremmo avere accesso attraverso il cosiddetto Recovery Fund (ne ho parlato su MicroMega). Spiace tuttavia costatare che il digital divide viene talvolta utilizzato come alibi, per giustificare una certa propensione a non cambiare le cose.

[Disegno di Hatice EROL da Pixabay]

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