Al di là di ogni considerazione di ordine politico, le reazioni della Cina alla campagna pro-Tibet e alle manifestazioni che hanno accompagnato il viaggio della fiaccola olimpica nelle scorse settimane offrono lo spunto per qualche riflessione sulle possibili strategie di comunicazione delle organizzazioni.
Il presupposto è che la Cina sia, in quanto nazione, una realtà organizzativa. Di fatto la Cina, messa in imbarazzo dalle proteste inscenate a Londra, Parigi e San Francisco, aveva la possibilità scegliere fra tre logiche comunicative, corrispondenti ad altrettanti modelli retorici, per rispondere alla crisi tibetana: il silenzio, l’aggressione, il rispecchiamento.
La prima strategia – il silenzio, appunto – non è stata utilizzata. In passato, al contrario, era una modalità ampiamente praticata dal partito di fronte ad avvenimenti che sfuggivano al controllo della nomenklatura. La linea di condotta era semplice: non parlare. Questa volta i mass media ufficiali, in particolare il “Quotidiano del Popolo” e l’agenzia di stampa “Nuova Cina”, hanno impiegato la strategia dell’aggressione. Le proteste sono state ricondotte a una presunta regia della cricca criminale del Dalai Lama e presentate, drammaticamente, come una minaccia agli interessi e all’unità stessa della patria. Tuttavia accanto a questo atteggiamento, decisamente prevalente, si è visto anche l’impiego di una retorica diversa, quella del rispecchiamento. La si è vista in opera, in particolare, nell’editoriale pubblicato sul “China Youth Daily” del 10 aprile 2008. Qui le contestazioni sono state descritte come un’opportunità, nella misura in cui inducono la Cina a meditare sui problemi posti sul tappeto.