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Il progetto Eretici digitali, lanciato dieci mesi fa da Massimo Russo e Vittorio Zambardino con la pubblicazione del Manifesto, è diventato finalmente un libro. Le dieci tesi hanno dato vita ad altrettanti capitoli di un saggio lucido e avvincente, edito nel novembre scorso da Apogeo (Eretici digitali. La rete è in pericolo, il giornalismo pure. Come salvarsi con un tradimento e 10 tesi). Peraltro gli autori hanno reso disponibile in Rete il testo del libro sotto licenza Creative Commons.

Considero le dieci tesi uno stimolo fondamentale nel dibattito sulla presunta crisi del giornalismo e sul ruolo della Rete. Il libro, nel quale le tesi sono argomentate e sistematizzate, suggerisce a maggior ragione molti spunti importanti. Come dicevo, mi sembra che la diagnosi generale di Russo e Zambardino sia assai lucida. E non risente neppure troppo del caso italiano, come invece gli stessi autori sottolineano per mettere le mani avanti. La diagnosi riguarda due malati importanti: il giornalismo e Internet. Il primo, suggeriscono Russo e Zambardino, soffre per la rottura del rapporto di fiducia fra giornalista e opinione pubblica. Rottura che deriva, a propria volta, dalla alienazione del racconto mediale. Che cosa si intende con ciò? L’alienazione è la separazione dalla realtà – concepita dal potere – del discorso dei media di informazione. Questa scissione fra realtà e discorso mi sembra richiamare il modello marxiano dell’alienazione. Assoggettato al potere, il discorso dei media è produzione di contenuti estranei alla realtà. Un po’ come il lavoro, assoggettato alla razionalità economica, è produzione di oggetti ostili all’operaio. Ecco che l’invito a difendere la pluralità dei racconti (decima tesi, La proprietà pubblica del racconto, dei racconti: la libertà della rete) si colora di una vena utopica. L’utopia del racconto liberato, appunto, espressione responsabile che pone da sé i propri scopi.

E tuttavia – notano gli stessi Russo e Zambardino – la Rete, che dovrebbe essere il luogo/mezzo “di potenziale costruzione di altri percorsi” (p. 240), è a propria volta in pericolo. I nuovi intermediari, che gestiscono l’accesso alla Rete e all’informazione in essa disponibile, puntano all’eteronomia dei racconti, intesa come coordinamento dall’esterno di funzioni specializzate svolte dagli individui. Questa condizione garantisce a pochi soggetti un vantaggio enorme, come sottolinea la quarta tesi, I nuovi intermediari sono potenti:

Più il sistema è sull’orlo della babele interpretativa, dell’entropia, del culto del fattoide – situazione in cui per i cittadini è impossibile avere punti di riferimento della produzione di senso – più il potere di intermediazione di questi soggetti aumenta. (p. 234)

Il rischio è, in sostanza, che dalla padella dell’utopia marxista  si cada nella brace della contro-utopia weberiana, che già vent’anni fa André Gorz (Métamorphoses du travail. Quête du sens. Critique de la raison économique) attualizzava alla luce della nascita della networked society:

La visione weberiana della società-macchina totalmente burocratizzata, razionalizzata, funzionalizzata, nella quale ciascun individuo funziona come un ingranaggio senza cercare di comprendere il senso (se c’è un senso) della mansione parziale che esegue […] tende a realizzarsi in una versione cibernetizzata, nella quale l’indottrinamento e la militarizzazione cedono il passo al farsi carico ‘personalizzato’ degli individui da parte di reti informatiche piene di sollecitudine. Lo scopo è lo stesso, e i risultati non differiscono per la loro natura ma per l’affinamento dei mezzi impiegati: la razionalizzazione funzionale delle condotte individuali non è più imposta dalla ‘polizia dei pensieri’ e dalla propaganda, ma da una manipolazione dolcemente insinuante che strumentalizza i valori non economici a scopi economici. (p. 62 dell’ed. it.)

Il tutto è reso più penoso, in Italia, dall’assurda contrapposizione fra giornalismo “tradizionale” (arroccato nella sua torre corporativa) e mistica dei nuovi media (secondo la quale l’informazione si fa da sé). Laddove, osservano Russo e Zambardino, qualunque discorso sui media dovrebbe partire oggi da un’integrazione fra Internet e mezzi mainstream.

Questa attenzione alle dinamiche del potere, che ho detto marxiana ma che potrebbe essere ricondotta anche a interpretazioni di matrice liberale, mi sembra la cifra più interessante di Eretici digitali. Lo dico anche se in me permane il sospetto che la capacità del potere di usare i media sia largamente sovrastimata. Certo è importante porre l’accento, come fanno Russo e Zambardino, sulla proprietà pubblica del racconto. Nel sua famosa Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? del 1784, Immanuel Kant osserva come la libertà di pensiero non possa consistere solo nell’autorizzazione ai sudditi di far uso della loro ragione. Essa include la possibilità di un uso pubblico della ragione: i sudditi diventano liberi quando possono “esporre pubblicamente al mondo le loro idee sopra una migliore costituzione, criticando liberamente quella esistente” (in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, UTET, 1956, p. 148).

Constato che la pars contruens del Manifesto è un po’ laconica. Il giornalismo, cero, deve rigenerarsi e rimettersi in gioco. Ma come? Basta davvero “innervare le nuove modalità di raccolta, racconto e distribuzione di informazione con i principi base del mestiere” (nona tesi, Il reboot del giornalismo, p. 239)? E come si fa? Nel libro vengono citati alcuni noti esempi di giornalismo convergente, dal New York Times al Washington Post, dal Guardian al Daily Telegraph. Si tratta indubbiamente di esperienze a cui guardare (a cui dovrebbero guardare, in ispecie, i provincialissimi giornali italiani). Ma credo che una chiave di lettura convincente nel nuovo corso, in grado di ridefinire la posizione del giornalismo nella sfera pubblica, sia ancora da venire.

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