Milena Gabanelli e Spartaco 2.0

La superficialità con cui Report ha affrontato il tema dell’uso delle informazioni personali da parte di Facebook, Google & C (la puntata, intitolata Il prodotto sei tu e trasmessa il 10 aprile scorso, è visibile qui) ha suscitato reazioni smodate e un po’ ridicole. Riconosco i difetti dell’inchiesta. Tuttavia mi disturba lo snobismo di quelli che sono scattati come molle. Sono pochi, ma in Rete fanno molto rumore (è questo è uno dei difetti della Rete). Sono scattati perché qualcuno ha messo in dubbio il valore del loro giocattolo: “Internet è il migliore dei mondi possibili. E se non lo capisci, cara Milena, peggio per te”.

Milena Gabanelli

Trovo quindi emblematico che, mentre in Italia scoppia lo “scandalo Gabanelli”, negli Stati Uniti Arianna Huffington perda la sua innocenza. Anche qui i fatti sono noti. Ma quelli che giustamente Vittorio Zambardino chiama i “professionisti dell’indignazione” (Se la Gabanelli sbaglia davanti ai professionisti dell’indignazione, in Scene Digitali, 12 aprile 2011), si sono spesi meno. Davvero non hanno qualcosa da dire?

Dopo avere collaborato gratuitamente per anni con The Huffington Post, più di nove mila blogger hanno promosso in questi giorni una class action contro la popolare testata online, chiedendo un risarcimento di 105 milioni di dollari per i mancati compensi riconosciuti. Il gruppo è guidato da Jonathan Tasini, giornalista e sindacalista a lungo collaboratore del sito diretto da Arianna Huffington. E c’è anche una pagina su Facebook, ovviamente (Hey Arianna, Can You Spare a Dime?): “siamo stati trasformati in moderni schiavi nella piantagione della Huffington”, dicono in sostanza i novelli spartachisti. L’entità del risarcimento corrisponde a un terzo di quanto pagato da AOL per acquisire The Huffington Post. L’idea, infatti, è che i ricorrenti abbiamo contribuito per circa un terzo al traffico del sito. Secondo Quantcast, nel 2010 The Huffington Post ha generato 4,8 miliardi di page views.

La risposta ufficiale di Arianna Huffington è arrivata ieri, attraverso un lungo editoriale (About That Lawsuit…). Vi si rivendica il valore del modello 2.0, basato sul contributo volontario e non retribuito degli utenti, i quali ogni giorno “forniscono carburante” a piattaforme come Facebook, Twitter, Tumblr, Yelp, Foursquare, TripAdvisor, Flickr, YouTube e molte altre. In aggiunta, la Huffington sottolinea i vantaggi che procura – in termini di prestigio e visibilità – la collaborazione con la sua testata.

Ipotizzo che i blogger in rivolta non vedranno riconosciuti i loro diritti. I fondamenti legali della causa sono deboli, come fa notare Lauren Kirchner nella sua puntuale analisi pubblicata il 10 febbraio scorso (AOL Settled with Unpaid “Volunteers” for $15 Million):

The thousands of unpaid bloggers in question, of course, have signed no agreement with the site, and are under no obligation to submit their stories with any regularity. They do not receive assignments. If they have an idea for a post but then decide not to write it, they are no penalized by the site’s editors in any way. This lack of regimentation in that editor/writer relationship would weaken the bloggers’ (hypothetical) case against The Huffington Post.

Scommetto quindi sul fallimento della class action. Eppure quel titolo della puntata di Report, Il prodotto sei tu, non mi sembrava così sbagliato.

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