Geert Lowink

La riscossa degli scettici

Complice forse il mutato clima sociale, più propenso alla riflessione e meno prono di fronte a qualunque effimera trovata di marketing, le fila di coloro che giudicano con severità l’ondata di entusiasmo acritico nei confronti dei nuovi media paiono ingrossarsi. È come se molti avessero finalmente trovato il coraggio di dichiarare il proprio scetticismo, senza timore di passare per patetici conservatori o, peggio ancora, analfabeti digitali. Intendiamoci: di fronte a qualunque critica, per quanto sommessa, la reazione dei tecnofeticisti continua a essere rabbiosa. Se non apprezzi – è la loro tesi – è perché non capisci. E capire è tutt’uno con il saper usare (riducendo con ciò la coscienza critica a competenza tecnica). Tuttavia tale reazione si mostra sempre più debole.

Ma quanto sono persuasive le ragioni degli scettici? Mi sembra che, nella maggior parte dei casi, i loro argomenti scontino due gravi pregiudizi. Al punto da istituire una simmetria sospetta con le narrazioni apologetiche e marchettare di cui siamo sempre più stanchi.

Il primo pregiudizio è quello nostalgico. L’argomento, in sostanza, è questo: poiché l’accettazione dei nuovi media comporta (anche) una perdita, non può che generare rimpianto. I nostalgici dei vecchi media sono assai vulnerabili al venir meno di alcune esperienze individuali (il profumo della carta, per esempio, nel caso del libro elettronico), ma soprattutto di alcune pratiche sociali (la relazione faccia-a-faccia, nel caso dei social network). È ovvio però che la nostalgia non rappresenta uno strumento valido di critica sociale e politica.

Il secondo pregiudizio è quello dicotomico. Si finge che l’esperienza digitale sia tutta da una parte e quella analogica dall’altra, che la prima sia inesorabilmente virtuale (nel senso di priva di sostanza, incompleta) e l’altra reale (ossia vera, in quanto fisica e concreta). Ne consegue spesso una dicotomia etica: il vecchio paradigma ideologico è il bene, mentre i nuovi media sono il male.

Fra gli autori italiani, Raffaele Simone mi sembra rappresentare bene questa tendenza. Il suo recente Presi nella rete (Garzanti 2012) è tutto teso a un confronto fra il passato, irrecuperabile e – in quanto tale – idealizzato come migliore, e il presente, tutto sbagliato. Fra i pochi che riescono a sfuggire a questo doppio pregiudizio c’è l’olandese Geert Lovink, di cui si apprezza particolarmente l’uscita, in edizione italiana da Egea, di Ossessioni collettive. Critica dei social media (molto più incisivo il titolo originale, però: Networks Without a Cause). In attesa che all’umanità passi la voglia di condividere qualunque sciocchezza e di fare “like” su ogni cosa, vale la pena di leggere le riflessioni di Lovink, il quale ci mette in guardia dalle derive odierne del Web. Perché, appunto, il problema non è Internet, ma l’uso che ne stiamo facendo. Un uso che, nella maggior parte dei casi, non sostiene forme di socialità solide e autentiche, ha un sapore autoreferenziale e ci pone in posizione di sfruttati inconsapevoli.

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