L’intervista rilasciata due giorni fa dalla sociologa Zeynep Tufekci a “The European” (We Are All Digital Immigrants, 01.03.2012) contiene a mio parere osservazioni di fondamentale importanza sui cambiamenti culturali legati alla diffusione dei social media e sul rapporto fra progresso tecnologico e condizione umana. Importanti perché partono dal presupposto, metodologicamente corretto, che online e offline non sono due esperienze alternative. L’online è parte del mondo reale. Esso mette a disposizione nuove forme di connettività, coordinamento e collaborazione, contribuendo in tal modo a riconfigurare e accrescere l’offline. Per questo non ha molto senso stabilire un nesso di causalità fra la diffusione dei social media e le rivolte del 2011 nei paesi arabi. Così come non avrebbe molto senso affermare che l’invenzione della stampa “causò” la Rivoluzione francese. La storia della stampa e quella della Rivoluzione francese, semmai, sono intimamente connesse. Sono elementi dello stesso percorso evolutivo, che la società borghese europea affrontò fra XVIII e XIX secolo.
L’intervista di Tufekci, che parte da una serie di considerazioni sulla cosiddetta Primavera araba, è tutta da leggere. Ulteriori spunti sulle rivolte arabe del 2011 si trovano in questa intervista rilasciata nel luglio scorso a TVO per il programma The Agenda:
Fra i passaggi più significativi dell’intervista a “The European”, ne segnalo qui solo tre.
Il primo riguarda il ruolo giocato da Al Jazeera, ancor prima di Internet, nello sviluppo di una nuova ecologia dei media e della sfera pubblica araba. Al Jazeera ha aperto nel mondo arabo uno spazio inedito, portando in televisione un tipo di discorso politico che neppure l’edizione della BBC in lingua araba aveva tentato in precedenza. In questo senso Al Jazeera ha avuto un ruolo più importante della Rete. D’altronde non v’è dubbio che la diffusione di Internet abbia contribuito a propria volta ad aumentare, specie negli ultimi due anni, la partecipazione dei cittadini arabi al dibattito pubblico. Ma secondo la sociologa americana maggiore partecipazione non significa necessariamente più democrazia. A dove porti una maggiore partecipazione dei cittadini dipende dal contesto sociale, dalla storia del paese e da molti altri fattori. In taluni casi la partecipazione si traduce semplicemente in polarizzazione e conflitto.
In questo senso Tufekci ci invita a non confondere l’apertura e l’accesso alle informazioni con il potere. Ma soprattutto – ed è il secondo passaggio notevole dell’intervista – ci ricorda l’esistenza di nuovi guardiani (gatekeepers) e nuove forme di potere:
Questo potere si manifesta in misura crescente sotto forma di algoritmi, invece che di organizzazioni. I “trending topics” di Twitter o il Page Rank di Google sono esempi del modo in cui un algoritmo può focalizzare la nostra attenzione. Ma anche giornalisti come Andy Carvin [specializzati nel lavoro di curation dei contenuti su Twitter, ndr] sono gatekeepers emergenti. Ciò non significa che i vecchi gatekeepers siano divenuti irrilevanti. Anche se in declino, la televisione negli Stati Uniti resta molto importante rispetto agli altri media.
Il terzo passaggio notevole dell’intervista di Tufekci a “The Atlantic” riguarda il richiamo a un umanesimo inedito, ovvero una cultura che integri la conoscenza tecnica dei nuovi strumenti di comunicazione con la capacità di comprendere le persone e la società. Oggi queste due conoscenze tendono a essere scisse. Per cui abbiamo, da un lato, i tecnofeticisti inconsapevoli e, dall’altro, gli umanisti tecnologicamente analfabeti:
Sono stufa di confrontarmi con tecnici che, per esempio, ti dicono: “Se non ami Facebook, Twitter, Google, Ebay, Amazon ecc., allora non usarli”. Esistono norme sociali, le quali esercitano un potere. Poiché piattaforme come Facebook, Twitter e Google sono importanti per l’interazione sociale, esse rappresentano sempre di più norme sociali: sono i nostri nuovi beni comuni sul piano civile, politico e sociale. Ci sono persone che si intendono di tecnologia ma che sembrano non comprendere l’importanza di questo passaggio. D’altra parte, quando mi capita di parlare con persone che vengono dal mondo delle scienze sociali e hanno una cultura umanistica, persone con una profonda comprensione della società e della storia, mi accorgo che sono alieni rispetto all’uso della nuove tecnologie. L’intersezione fra questi due gruppi è ancora scarsamente popolata.