Il web? Un idiota sapiente

Un dibattito che si credeva sopito, quello fra tecnofobici e tecnofeticisti, sembra fare nuovamente capolino nel recente botta e risposta fra Umberto Eco (“Il web è idiota perché non sa dimenticare”, ha detto il semiologo di Alessandria il 14 maggio scorso al Salone del Libro di Torino) e Derrick de Kerckhove (“Il web è l’intelligenza globale che si sta organizzando”, gli ha risposto lo studioso dei media canadese sul sito di Padri analigici Figli digitali). La tentazione è di rubricare la posizione del primo come apocalittica e quella del secondo come integrata, per usare categorie dello stesso Eco.

In realtà la questione è seria. Stiamo parlando della funzione della memoria e del suo rapporto con il nuovo medium elettronico. Coerentemente con l’impostazione deterministica ereditata da McLuhan, de Kerckhove pensa che la nostra mente stia cambiando. Ossia: il web la sta cambiando. Inutile quindi discutere di ciò che la memoria sia stata fino a ieri e domandarsi se il web sia uno strumento adatto a supportarne l’esercizio. Per de Kerckhove il punto non è se il web si adatti alla nostra mente, ma come la nostra mente si stia adattando al web, lungo un percorso inevitabile in quanto – appunto – deterministico.

Confesso la mia diffidenza per certi assunti della scuola di Toronto, come quelli di de Kerckhove. Ne diffido perché non li trovo empiricamente dimostrabili e quindi li iscrivo più alla letteratura che al mondo delle teorie scientifiche. In che cosa si sostanzi questa mente collettiva, la noosfera sulla quale il gesuita Pierre Teihard de Chardin ci intratteneva già all’inizio del XX secolo, ancora non mi è chiaro. Che anch’io, come de Kerckhove sospetta di Eco, sia “bagnato dentro la cultura della scrittura” e quindi incapace di cogliere l’intelligenza globale che avanza? Certo non mi sento pronto ad accettare un’estrema forma di misticismo panteista, in cui la coscienza individuale del soggetto è sacrificata alle ragioni teologiche della Rete.

Con parole certamente suggestive de Kerckhove parla della memoria in evoluzione. Nella cultura orale – dice – la memoria era prigioniera dei corpi. Con la scrittura essa divenne iscritta nel linguaggio, liberandosi dal peso del contesto. Adesso che siamo nella fase dell’elettricità la memoria si presenta “in sospensione”. In passato de Kerckhove ebbe modo di insistere sulla dimensione “connettiva” della memoria, attivata dall’ipertesto: dalle memorie dei singoli alla memoria globale.

Che cosa significa tutto ciò? Non mi è chiaro. La prospettiva di Eco mi sembra interessante, perché parte da una critica concreta: una critica mossa non al medium in sé – il web, appunto – ma alla cultura contemporanea. Credo che l’utilità della funzione critica dell’intellettuale non sia venuta meno e che esercitarla sia compito assai nobile. Apertura al nuovo non significa assuefazione alle idiosincrasie dell’ipermodernità e conformismo tecnologico. La cultura contemporanea vive un disagio della memoria, che deriva dalla incapacità diffusa di selezionare i contenuti e le fonti. Questo disagio è un arcaismo di ritorno, che si manifesta in forme agghiaccianti di information illiteracy. Esso vuole dire in sostanza incapacità di costruire e condividere un contesto interpretativo. E senza contesto interpretativo non c’è a mio avviso vera memoria. La memoria, infatti, non è persistenza del dato su un supporto (cerebrale, magnetico o ottico che sia). È capacità di attribuire significato a quel dato, di costruire su di esso un discorso insieme agli altri. L’enciclopedia è un discorso condiviso sul mondo.

Esaltando l’accessibilità al dato, la cultura contemporanea elude il problema della memoria. Ci preoccupiamo molto di accumulare connessioni. Ma non ci preoccupiamo affatto di valutare pertinenza, rilevanza e attendibilità dei documenti reperiti. È lo “squirreling behaviour” evidenziato dallo studio dell’UCL sulla Google generation (Information Behaviour of the Researcher of the Future, 11 gennaio 2008). È il comportamento del giovane Funes, protagonista del racconto di Jorge Luis Borges  Funes el memorioso, pubblicato nel 1944, il quale dice di sé: “La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti”. Un uomo così, sospetta Borges, non è “molto capace di pensare”, perché nel suo modo sovraccarico “non [ci sono] che dettagli, quasi immediati.”

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