Una settimana fa ho espresso, su questo blog, un modesto parere sulla vitalità di Second Life (vedi il post C’è vita su SL). Alludevo fra l’altro a nuove modalità di espressione artistica che trovano nel mondo di Linden Labs e in altri metaversi un terreno fertilissimo. L’esempio migliore che mi viene in mente è quello di Blue Planet, un lavoro recente di Peter Greenaway e Saskia Boddeke, rappresentato in prima assoluta il 29 agosto scorso a Saragozza. Greenaway e Boddeke ci parlano di ecologia e dei destini di questo nostro pianeta umiliato. Lo fanno attraverso l’allegoria del diluvio universale, mettendo in scena un’affascinante teodicea in cui si confrontano il vecchio Noè, sua moglie, i figli e Dio stesso. Il cuore simbolico della rappresentazione è l’acqua: immagini di serbatoi, cascate, piscine, piogge e oceani in perenne movimento accompagnano la performance di 90 minuti. Gli attori stessi recitano in una vasca che occupa quasi per intero la superficie del palcoscenico. O meglio: gli attori in carne e ossa. Perché alcuni personaggi sono interpretati da avatar, i quali appaiono all’interno di grandi monitor sulla quinta del teatro e interagiscono con i loro colleghi reali. I personaggi virtuali sono stati ideati e realizzati in SL dal designer Luca Lisci di 2ndK, uno studio milanese specializzato nella progettazione dell’interazione nei metaversi. La scenografia stessa è un esempio di mixed reality: la parte fisica è frutto dell’ingegno di Italo Rota, quella digitale è stata ottenuta attraverso rendering tridimensionali, per i quali i creativi di 2ndK hanno utilizzato l’editor di Linden Labs in una sua versione non ancora disponibile al pubblico.
Blue Planet è quindi un’opera multimediale che mescola teatro, musica dal vivo (la colonna sonora è di Goran Bregovic), cinema bidimensionale e realtà virtuale 3D. In particolare, l’uso delle tecnologie di SL mi sembra significativo per due fondamentali ragioni. La prima è di ordine tecnico. Blue Planet dimostra come risultati di grande creatività ed elevata qualità visuale si possano ottenere con pochi mezzi hardware e software. Un Apple MacBook Pro che installi l’editor di SL, Adobe Photoshop e poco altro: ecco il corredo sufficiente per realizzare effetti speciali (la pioggia, il riflesso del sole sull’acqua, le ombre dell’incarnato dei volti) che altrimenti richiederebbero sofisticati interventi in post-produzione. Da questo punto di vista, il messaggio è chiaro: non servono gli studi della Pixar per fare arte 3D, ma neppure una macchina Avid.
La seconda ragione per cui trovo l’esperienza di Blue Planet molto significativa è di ordine simbolico. In fondo, lo spettacolo di Greenaway e Boddeke ci parla di due cose: il divenire del pianeta e il rapporto fra Dio e l’essere umano. Ci parla dei diversi futuri che ci troviamo di fronte, in questo borgesiano giardino dei sentieri che si biforcano. E dei diversi volti di Dio, le maschere che egli indossa quando ci parla: uomo, ermafrodita, serpente, bambino. Blue Planet ci parla cioè di campi problematici, perché nessuno può dire quali siano, in definitiva, il futuro che ci attende e il volto autentico del trascendente. Dell’uno e dell’altro possiamo solo riferire in una dimensione virtuale. È virtuale ciò che ha in sé la forza (virtus) di essere, ma che non si è attualizzato in una soluzione. Il virtuale è quindi la dimensione della progettualità. È un nodo problematico, come dice Pierre Lévy: pur avendo in sé tutte la potenzialità da cui può scaturire l’essere in una sua entità specifica, non si esaurisce in quella entità. C’è un surplus del virtuale rispetto al reale. Perché non sappiamo dove il primo ci condurrà, a differenza del secondo (e del suo simile: il possibile), che è univoco e scontato. Ecco perché trovo giusto che Greenaway e Boddeke abbiano utilizzato un metaverso. Si trattava di mettere in scena enti rispetto ai quali il reale è decisamente troppo stretto. Grazie all’espediente di SL – che non è solo scenografico, ma pienamente drammaturgico – Blue Planet concede al futuro e a Dio l’opportunità di essere diversi da quelli che sono.