Non è solo per il sentore di letame che promana dall’hashtag #raimerda. È tutto un complesso di cose che mi fa considerare questo come un momento di concimazione e quindi di fertilità per la televisione pubblica italiana. Chissà: forse la crisi della Rai ha raggiunto il suo punto più basso, un punto dal quale non può che risalire. Certo la reazione rabbiosa del PDL all’annunciata intenzione del Governo di mettere mano alla riforma, se non altro per nominare il prossimo CDA con criteri più decenti rispetto al passato, non lascia ben sperare. Ha detto il solito Fabrizio Cicchitto il 7 marzo: “Abbiamo dato la fiducia a Monti affinché intervenga su questioni economiche e non su Rai e giustizia. E la fiducia continuerà ad averla se si occuperà di questo.”
Ne ho parlato oggi nell’ambito della ottava lezione del corso su Giornalismo e ipertelevisione, di cui riporto i materiali qui sotto:
Se Cicchitto ha voluto ancora una volta essere fedele alla macchietta di se stesso, altri segnali indicano la presenza di un clima più orientato al cambiamento e all’introduzione di nuove regole. A parte i risultati dell’indagine condotta da Astra Ricerche per Upa, che indicano l’ispirazione diffusa a una riforma complessiva della televisione pubblica, è interessante la riflessione proposta da un gruppo di autori televisivi sul supplemento domenicale del Sole 24 Ore del 10 marzo. Si invoca un intervento “a livello strutturale per rinnovare profondamente la Rai attuale, cambiando il suo modello di governo, garantendo la sua autonomia dai partiti, ridefinendo criteri di assoluta trasparenza nella selezione dei dirigenti e nell’assegnazione degli appalti.”
Molte proposte sono sul tavolo. Quasi tutte partono dalla constatazione che l’esistenza di una televisione pubblica ben gestita può rappresentare una garanzia democratica e un veicolo di pluralismo. Insomma: se, invece di #merdarai, fosse #salvarai?
