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Connessi e disinformati

Siamo tutti connessi. Siamo, per ciò stesso, più informati? In che modo la tecnologia sta contribuendo a migliorare la qualità della nostra informazione e, in definitiva, del nostro spazio pubblico.

La risposta presuppone un discorso critico sulla tecnologia: merce rara, di questi tempi. Senza dubbio la tecnologia è una delle forze che contribuiscono in misura preponderante a determinare il modo in cui l’industria dell’informazione percepisce i fatti del mondo, realizza il proprio prodotto e distribuisce le notizie al pubblico, ma anche il modo in cui il pubblico decodifica le notizie stesse.

Dunque la tecnologia è una delle forze che contribuiscono a determinare il modo in cui l’opinione pubblica si informa. Ma quanto la tecnologia è determinante? E come le cosiddette «nuove tecnologie» agiscono nel contesto odierno?

Dobbiamo sforzarci di costruire un discorso laico e critico sulla tecnologia. Ma, quanto più la tecnologia si manifesta nella sua potenza, tanto più è difficile perseguire tale obiettivo. Oggi prevalgono le narrazioni ideologiche, che si fondano su una lettura deterministica del ruolo della tecnologia. Questo atteggiamento è facilmente riscontrabile presso i cosiddetti «tecnoentusiasti».

Un paio di esempi. Ecco che cosa dichiarava nel 2006 Derrick de Kerckhove: «Esiste nelle reti (e per estensione nell’insieme delle tecnologie digitali) una qualità o una proprietà essenzialmente democratica? Sì, assolutamente.» (Dalla democrazia alla ciberdemocrazia, in Derrick de Kerckhove, Antonio Tursi (a cura di), Dopo la democrazia?, Apogeo, Milano, 2006, 57-70). Ed ecco, in tempi più recenti, quanto ha avuto modo di osservare Beppe Grillo, intervistato da «Times»: «It’s the Internet. The Internet creates transparency, creates a change of mentality, brings people together». (Stephan Faris, Italy’s Beppe Grillo: Meet the Rogue Comedian Turned Kingmaker, «Times», 7 marzo 2013)

Agli entusiasti vengono spesso contrapposti, dalla pubblicistica corrente, i cosiddetti «tecnopessimisti». È il caso di Evgeny Morozov, autore americano di origine ucraina molto citato (si veda il suo The Net Delusion. The Dark Side of Internet Freedom, PublicAffairs, New York, 2011). A me appare corretto considerare la tecnologia, in termini sociologici, come un agente che opera, insieme ad altri fattori, in un contesto di influenzamento reciproco o di «co-costruzione». Lo chiamiamo «modellamento sociale della tecnologia». Negli anni Ottanta lo storico della tecnologia Melvin Kranzberg sintetizzò questa visione in una serie di truismi – le famose sei leggi di Kranzberg – che vale la pena di ricordare oggi. Kranzberg ci ricorda che gli sviluppi della tecnologia hanno conseguenze ambientali, sociali e umane che vanno spesso al di là degli obiettivi immediati per cui sono state concepite. Il modo in cui questi sviluppi si manifestano deriva appunto da un processo di «co-costruzione» in cui sono coinvolti diversi attori sociali. Tale processo è a propria volta influenzato dall’orizzonte di aspettative che ciascuna novità tecnologica genera, indipendentemente dalle sue caratteristiche intrinseche.

Ogni nuova tecnologia è dotata di un capitale simbolico. Questo è vero, in modo particolare, per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione: «a technology must not only succeed materially; it must also succeed symbolically» (Andreas Fickers, “Neither good, nor bad; nor neutral”: The Historical Dispositif of Communication Technologies, in Martin Schreiber, Clemens Zimmermann (a cura di), Journalism and Technological Change. Historical Perspectives, Contemporary Trends, Frankfurt / New York, Campus, 2014, 30-52, 36).

Nel caso di Internet, si può parlare di un surplus di capitale simbolico. Lo ha messo in luce molto bene Pierre Musso (Critique des réseaux, Paris, PUF, 2003): la Rete è diventata, attraverso un subdolo processo di metaforizzazione, l’archetipo dell’organizzazione sociale e tecnica contemporanea. La Rete è un idolo, che modella tutto e impatta su tutto. Crederci è una forma di religione, amministrata da scaltri sacerdoti. Costoro godono del vantaggio di poter esibire proposizioni non falsificabili, proprio perché sviluppate al di fuori del discorso scientifico.

Davvero la Rete è «intrinsecamente» democratica? Che tipo di rapporti promuovono e istituzionalizzano le forme organizzative della Rete? Rapporti egualitari o servili? Chi è «padrone» e chi è «schiavo» in Internet? Il pensiero critico che si è sviluppato intorno ai nuovi media – ricordo, fra gli altri, autori come Geert Lovink, Dmytri Kleiner e Carlo Formenti – ci rammenta che è sempre opportuno porsi queste domande.

Da un lato dobbiamo sapere che, quando ci informiamo in Rete, alcune dimensioni agiscono, orientando il discorso e modellando le nostre opinioni. Dobbiamo dunque decostruire le narrazioni della Rete, capire chi sono i narratori e domandarci quali obiettivi hanno. Dall’altro lato non dobbiamo immaginare che la Rete produca i suoi effetti su di noi in maniera deterministica. Gli effetti della tecnologia vanno spesso al di là delle intenzioni di chi la progetta e di chi la controlla, e sono il risultato di dinamiche di due tipi: top-down e bottom-up («co-costruzione»).

La Rete va vista piuttosto come un campo conflittuale. Il potere «non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare.» (Michel Foucault, Microfisica del Potere, Torino, Einaudi, 1977, 184).

C’è però qualcosa che giustifica l’uso dell’attributo «nuovi» utilizzato per designare i «nuovi media», ossia una qualità che rende il passaggio contemporaneo per molti versi inedito. All’espressione «nuovi media» preferisco quella proposta da Eric Schmidt: «tecnologie della connessione». Perché credo che abbiamo a che fare con qualcosa che ci porta oltre i media come li abbiamo fin qui conosciuti. I media non sono più il «Grande Altro» suggerito da Slavoj Žižek (The spectre of ideology, in Elisabeth Wright e Edmond Wright (a cura di), The Žižek Reader, Blackwell, Oxford, 1999, 53-86). Diventano un «Noi» (Dan Gillmor, We the Media. Grassroots Journalism by the People, for the People, O’Really, Sebastopol CA, 2004).

Pertanto capire che cosa i media fanno a noi risulta meno rilevante. È cruciale, invece, comprendere che cosa noi facciamo con i media. O, per meglio dire, dentro i media.

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