Che cosa fa Internet alla mente

Eccoci ancora a discutere degli effetti dei media sulle nostre menti. Effetti positivi e negativi, si intende. In realtà le ricerche degli ultimi decenni ci suggeriscono una certa cautela a riguardo: l’idea che le cosiddette psicotecnologie (uso non a caso l’espressione coniata da Derrick de Kerckhove) modifichino la nostra percezione del mondo e i nostri schemi neurali è stata grandemente esagerata in passato. Non so quanti neuroscienziati sottoscriverebbero oggi certe affermazioni di Marshall McLuhan, benché il massmediologo canadese continui a essere contornato da un’aura mitica. Più che discutere di ciò che i media fanno alle persone, sembra interessante osservare ciò che le persone fanno con i media.

The ShallowsA restituire attualità al dibattito sull’impatto dei media sulla mente umana è la pubblicazione dell’ultimo libro di Nicholas Carr (The Shallows. What the Internet is Doing to Our Brains, New York, W.W. Norton & Company, 2010). Secondo Carr il modo in cui assumiamo le informazioni online e attraverso i media digitali ostacola la comprensione e l’apprendimento, piuttosto che favorirli. Ciò dipende dal fatto che i nuovi media costituiscono ambienti distraenti, dove i percorsi cognitivi vengono sistematicamente interrotti e deviati. Gli spazi multimediali tendono a dividere la nostra attenzione. E questo rende più difficile il trasferimento delle informazioni dalla memoria temporanea a quella a lungo termine, cioè nell’area del cervello in cui si sviluppa l’apprendimento.

Carr cita in particolare uno studio di alcuni anni fa di Helene Hembrooke e Geri Gay, intitolato The laptop and the lecture: The effects of multitasking in learning environments (in Journal of Computing in Higher Education, 15, 1, settembre 2003), in cui vengono messe in discussione le supposte virtù dell’ipertesto nei processi di apprendimento. Una ricerca più recente, di Jacob L. Vigdor e Helen F. Ladd (Scaling the Digital Divide: Home Computer Technology and Student Achievement, in National Bureau of Economich Research, 16078, giugno 2010) dimostra che a un gap nella dotazione informatica non corrisponde necessariamente uno svantaggio culturale. Anzi: nel caso della popolazione scolastica del North Carolina, coloro che hanno maggiore accesso ai computer e a Internet manifestano più difficoltà nello studio della matematica e della lingua inglese. Un ulteriore studio citato da Carr è quello condotto dallo psicologo Gary Small sugli effetti del multitasking.

Il video qui sotto riproduce una breve intervista rilasciata da Carr a ABC News il 2 giugno scorso:

Ulteriori spunti possono essere reperiti direttamente nel blog di Carr (Rough Type), il quale peraltro ammette di utilizzare sistematicamente Internet per comunicare e per informarsi. Nel frattempo, sull’ultimo numero di Nieman Reports (la prestigiosa rivista della Nieman Foundation for Journalism di Harvard) lo psicologo e neurobiologo Russell Poldrack ha pubblicato alcune riflessioni sul modo in cui i nuovi dispositivi di accesso ai contenuti digitali influenzerebbero i nostri processi di apprendimento (Novelty and Testing: When the Brain Learns and Why It Forgets). A proposito dell’iPhone Poldrack evoca una condizione di vera e propria dipendenza, determinata dal fatto che il telefonino di Apple ci garantisce la possibilità di accedere a nuove informazioni in qualsiasi momento:

Every time it buzzes to signal a new e-mail or text message it is wiring even more firmly into my brain the desire to pick up the device and look for that precious nugget of new information, which often is only a reminder of another committee meeting. Although no research has yet been published on this, I am confident that we soon will see that our bond to these devices works through the same mechanisms in the brain that govern addiction to drugs, food and many other things.

Carr non è un neuroscienziato. Tuttavia egli si preoccupa di trovare un fondamento biologico alla propria tesi. Il cervello umano – sostiene – è dotato di neuroplasticità, ovvero è malleabile. I nostri circuiti neurali si adattano all’ambiente e agli strumenti disponibili, in particolare quelli utilizzati per ricercare informazioni e per attribuire ad esse un significato. Intervistato da Marc Parry per The Chronicle of Higher Education (vedi Linked In With: a Writer Who Questions the Wisdom of Teaching With Technology), Carr non dice di poter provare ciò, ma rimanda a una serie di indizi (“evidences”) che rendono l’ipotesi altamente plausibile (“there’s very strong suggestions”). Il concetto di neuroplasticità è stato introdotto dal premio Nobel Eric Kandel.

Ma c’è chi contesta questa visione. Per esempio Steven Pinkler, professore di psicologia a Harvard, ritiene che le tesi di Carr non abbiano fondamento scientifico e siano mosse dal pregiudizio anti-tecnologico. Sul NYTimes.com del 10 giugno scorso Pinkler ha pubblicato un severo commento all’ultimo libro di Carr (Mind Over Mass Media). Vi si legge fra l’altro:

Knowledge is increasing exponentially; human brainpower and waking hours are not. Fortunately, the Internet and information technologies are helping us manage, search and retrieve our collective intellectual output at different scales, from Twitter and previews to e-books and online encyclopedias. Far from making us stupid, these technologies are the only things that will keep us smart.

Non meno severe le considerazioni di Evgeny Morozov su Prospect del 22 giugno scorso (Losing our minds to the web). Secondo Morozov, brillante curatore della rubrica Net.Effect su Foreign Policy, Carr trascura i veri pericoli di Internet: l’erosione della privacy, il fiorire di atteggiamenti narcisistici, la dipendenza dalla tecnologia e la crisi dell’individualismo.

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