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Aura e cultura pop

L’aura dell’opera d’arte è persa per sempre, o ritorna sotto forma di esperienza di consumo?

L’industria culturale ha bisogno dell’aura. Ci pensavo visitando di recente la Österreichische Galerie del Belvedere di Vienna. Nel mio tour tra le sale di quella pinacoteca, non ho potuto esimermi dalla tappa più pop, reclamata fra l’altro dai miei figli: la visione del Bacio di Gustav Klimt (Der Kuss – Liebespaar, 1908-1909, olio su tela). E in tale circostanza sono stato colpito da una novità, rispetto all’allestimento che ricordavo. A pochi metri dal quadro del grande pittore secessionista, opportunamente protetto da un apparato di sicurezza, è collocata una tela che riproduce la stessa opera. Si tratta di una copia, neppure troppo fedele all’originale, resa disponibile per consentire ai visitatori di fotografare Il bacio. O, per meglio dire, di fotografarsi accanto al quadro. Un cartello con la scritta «selfie room» incoraggia l’operazione. Dopo una rapida occhiata all’originale, i visitatori si affollano intorno alla copia e attendono pazienti il proprio turno con lo smartphone in mano.

Il dispositivo di consumo del Bacio di Klimt include dunque almeno tre momenti: 1) l’osservazione del quadro; 2) il selfie scattato accanto alla sua copia; 3) l’acquisto di un gadget nello shop del Belvedere, dove la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte si manifesta al massimo grado (Il bacio è riprodotto su poster, cartoline, t-shirt, oggetti di ceramica, segnalibri, matite, fridge magnet ecc.)

Che cosa ci dice tutto ciò? Ci dice, forse, che anche il consumo culturale di massa ha bisogno di spazi sacralizzati, capaci di ospitare la celebrazione del culto. Anzi, forse ne ha bisogno a maggior ragione, per recuperare la carica religiosa andata irrimediabilmente persa insieme all’aura dell’opera d’arte.

Ovviamente parlo dell’aura così come la intende Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. E credo che sia bene rileggere Benjamin, di tanto in tanto. Perché siamo ancora qui a constatare, con una certa nostalgia, che l’opera d’arte non è più circonfusa da quell’aura, cioè dal valore culturale (nel senso di “legato al culto”) che deriva dal suo essere un oggetto distante, misterioso ed eterno, qualcosa che non si può mai abbracciare e comprendere pienamente.

Benjamin collega l’esperienza dell’aura, in modo problematico, a due concetti: la creatività individuale da un lato, l’autenticità del manufatto dall’altro. Per quanto riguarda il primo punto (la creatività individuale) va detto che l’esaltazione del genio artistico di epoca romantica segna già un momento di non ritorno, una netta separazione fra l’arte antica e quella moderna. Se l’oggetto di culto non è più il divino, ma l’autocoscienza dell’artista, qualcosa è già andato perduto. L’arte romantica non può che essere nostalgica e ironica.

Ma è il secondo punto (l’autenticità del manufatto) a interessarci maggiormente. Si potrebbe pensare che Benjamin, parlando della fotografia e del cinema, profetizzi l’era dell’immagine elettronica, nella quale – oggi lo sappiamo – si annulla qualsiasi differenza fra originale e copia. Il realtà solo una lettura frettolosa del filosofo tedesco ci fa dire che la perdita dell’aura è la conseguenza della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte e dunque della sostanziale indistinzione della copia rispetto all’originale. La perdita dell’aura non è il risultato dell’evoluzione tecnologia, che rende l’opera d’arte riproducibile. Semmai è vero il contrario: la tecnologia si impone nel campo dell’espressione artistica, perché l’aura è andata smarrita.

Aura post-tecnologica

Ma torniamo alla «selfie room» della Österreichische Galerie. Sembra che il quadro di Klimt non sia privo di una sua aura. Anzi, la dimensione auratica sembra necessaria all’esercizio del culto. Solo che l’oggetto di culto – appunto – non è più il divino, come nell’arte antica, né l’autocoscienza dell’artista, come in quella romantica. Non è l’autenticità dell’opera – che nel romanticismo finisce per coincidere con il suo carattere geniale. All’hic et nunc irripetibile dell’opera si sostituisce ora l’hic et nunc del suo consumo. Il selfie serve a certificare l’avvenuta esposizione, la presa di contatto, l’appropriazione.

Aura-selfie-Gioconda

Scrivono Andrea Balzola e Paolo Rosa: «La tecnologia interattiva produce eventi auratici e la tecnologia digitale non è tanto riproduttiva quanto generativa nonché capace di sparizione. È un tipo diverso di “aura”, senza culto e senza devozione, perché l’aura non appartiene all’opera ma all’evento, ciò che si impregna di “aura” non è l’opera bensì la sua esperienza» (L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano, 2011).

Come dicevo, non credo che culto e ritualità siano venuti meno. E in ciò dissento da quanto scrivono Balzola e Rosa. Nelle sale dei grandi musei – dalla Österreichische Galerie di Vienna al Louvre di Parigi, dagli Uffizi di Firenze alla National Gallery di Londra – si celebra un nuovo rito. Orde di turisti si assiepano davanti alle icone globali dell’arte con la stessa smania con cui i pellegrini anelano alla Madre celeste nel santuario di Jasna Gòra o alla Ka’ba della Mecca. Tuttavia, mentre l’aura benjaminiana presuppone una distanza incolmabile fra l’opera e chi la contempla – distanza che è surplus di senso rispetto a qualunque interpretazione – il nuovo culto celebra l’annullamento della distanza fra l’opera e chi la consuma. Il rito è dunque blasfemo, nella sua pretesa di congiungere soggetto e oggetto, umano e “divino”.

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