È stata Venezia la culla del libro moderno. Le vicende storiche della Serenissima ci aiutano a capire perché tutto accadde proprio lì e proprio in quegli anni, fra il 1500 e il 1540. Anche se il vero inizio fu molto prima, con la caduta di Costantinopoli e la fine dell’Impero bizantino.
Costantinopoli cadde nelle mani dei turchi all’alba del 29 maggio 1453, al termine di una notte di luna calante e dopo oltre un mese di assedio. La città era ormai ridotta allo stremo. Difesa da poche migliaia di soldati, in larga maggioranza greci e italiani, dovette arrendersi alla schiacciante superiorità dell’esercito di Maometto II. Finiva così una storia durata oltre mille anni, quella dell’Impero romano d’Oriente. Finiva anche per l’incapacità delle potenze europee di comprendere la gravità di tale evento e di organizzarsi in una coalizione unitaria per scongiurarlo. Solamente un secolo dopo, nel 1571, l’Europa si ripresenterà unita all’appuntamento con la storia, riuscendo a sconfiggere la flotta turca nello scontro navale di Lepanto.
Fra Oriente e Occidente
Ma, come spesso accade nelle vicende dei popoli e delle civiltà, un evento nefasto pone le premesse per una grande trasformazione. La caduta di Costantinopoli va considerata una delle concause della svolta veneziana del Cinquecento. Intendiamo la svolta che la portò ad essere, insieme a Roma e Firenze, centro di irradiazione della tradizione umanistica e quindi capitale del Rinascimento europeo. Perché proprio la fine dell’impero bizantino comportò il trasferimento a Venezia di quell’eredità culturale che non poteva più trovare la sua patria a Costantinopoli, ribattezzata nel frattempo dai turchi Istanbul.
A Venezia non solo rientrarono, in gran numero, i cittadini veneziani che precedentemente erano espatriati in Oriente per gestire i loro commerci fra Adriatico, Egeo e Mar Nero. La città diede asilo anche a greci, ebrei e altri profughi, i quali si sentirono più sicuri sotto le ali protettrici della Serenissima, a dispetto di una certa tolleranza che il regime ottomano dimostrò nei confronti dei non musulmani. E, insieme agli uomini, trovarono rifugio a Venezia i libri e le idee.
Bessarione e la Biblioteca Marciana
Emblematica è in tal senso la figura di Bessarione, nato a Trebisonda nel 1403, ordinato cardinale nel 1439 e collocato al punto di incontro fra l’eredità del mondo greco classico, la tradizione cristiana dei Bizantini e la cultura latina della curia romana. Bessarione si adoperò per anni, con scarso successo, nel tentativo di convincere i potenti d’Europa a proteggere Costantinopoli dalle mire dei turchi. Dopo la sua caduta, sostenne la necessità di organizzare una crociata per restituire la città ai popoli cristiani. Ma anche in questo caso non riuscì a mobilitare una coalizione abbastanza forte e credibile. Alla fine, anche ai suoi occhi Venezia apparve il luogo più adatto per dare rifugio all’eredità spirituale e culturale esiliata da Costantinopoli e, al tempo stesso, per rilanciare l’idea di un ponte fra Oriente e Occidente. Venetiae quasi alterum Byzantium, insomma.
L’atto che suggellò questa investitura di Venezia da parte di Bessarione fu la donazione della sua biblioteca al Doge e al Senato della città. Nel 1469 la collezione del cardinale comprendeva 482 manoscritti greci e 264 latini. A questi si aggiunsero altri libri che Bessarione acquistò fino al 1472, anno della sua morte. Nel 1537 l’architetto Iacopo Sansovino fu incaricato di costruire una “libreria” che ospitasse la donazione di Bessarione. Nacque così la Biblioteca Marciana (oggi Biblioteca Nazionale Marciana), dove i libri furono trasportati tra il 1554 e il 1564.
Il precedente di Petrarca
La donazione di Bessarione alla Serenissima ha un precedente. Oltre un secolo prima, infatti, Francesco Petrarca offrì la propria collezione di libri alla Repubblica di Venezia, in cambio di una casa in cui abitare. Nelle intenzioni di Petrarca la donazione doveva servire a comporre il primo nucleo di una grande biblioteca pubblica, aperta a tutti gli studiosi e gestita direttamente dall’autorità veneta.
Il Senato accolse la proposta di Petrarca nel 1362. Il progetto però non andrò in porto, per ragioni che qui non esploriamo. Nonostante ciò, l’episodio riveste un’importanza capitale nella storia della cultura europea. Era la prima volta che in Occidente si concepiva l’idea di un servizio di conservazione e prestito di libri aperto a tutti gestito da un’autorità diversa da quella ecclesiastica, com’era invece accaduto per tutto il medioevo.
La capitale europea del libro
Nel frattempo, Venezia era diventata la capitale europea del libro. Nel giro di una trentina d’anni, dall’inizio del XVI secolo, la città si riempì di botteghe di tipografi-editori. Per la prima volta la produzione libraria – a sua volta radicalmente trasformata in seguito alla diffusione della stampa a caratteri mobili, introdotta in Europa da Johannes Gutenberg fra il 1449 e il 1455 – procedeva di pari passo con la definizione di un progetto culturale ed era sostenuta da chiari obiettivi economici. I nuovi professionisti dell’editoria veneziana non erano solo stampatori. Erano al tempo stesso letterati, grafici ed imprenditori.
I numeri parlano chiaro: intorno al 1500 erano attive a Venezia ben 200 officine di stampa, fondate da tipografi provenienti da tutta Europa. Nessun’altra città poteva vantare, all’epoca, una tale quantità di imprese attive. Neppure Amsterdam, che le contendeva tale primato. A Venezia si stamparono i primi libri in greco, in armeno, in cirillico bosniaco e probabilmente in arabo, oltre alle prime edizioni del Talmud (per i tipi del belga Daniel Bomberg, nel 1523) e del Corano (Alessandro Paganini, 1538).
L’editoria come impresa
I tipografi attivi a Venezia investivano in proprio, alla ricerca di un successo commerciale che doveva essere su scala europea, non cittadina. E poteva capitare che facessero la scelta sbagliata, come avviene a ogni imprenditore che si rispetti. È il caso proprio del succitato Paganini. La sua edizione del Corano fu accolta malissimo dal mercato, sia perché i musulmani nutrivano dei pregiudizi nei confronti della stampa, sia perché le edizioni manoscritte del libro sacro dell’Islam in circolazione in quegli anni erano di qualità decisamente superiore. Quasi tutte le copie del libro restarono invendute, al punto che lo stesso Paganini si risolse a distruggerle.
Diversi fattori contribuirono a rendere unico l’ecosistema editoriale veneziano: la disponibilità di capitali, l’elevato livello di alfabetizzazione della popolazione, la presenza di cartiere di prima qualità nell’entroterra veneto (in particolare lungo le sponde del Piave, del Brenta e del Lago di Garda), il favorevole quadro legislativo. Decisiva fu la scelta del governo veneziano di riconoscere ai tipografi un privilegio di stampa – ossia la possibilità di stampare opere con garanzia di esclusività – della durata di cinque anni.
Privilegi e censure
Il primo a ottenere un privilegio così lungo, nel 1469, fu il tedesco Johann von Speyer, il quale aveva appreso l’arte della stampa a caratteri mobili a Magonza (dove operava Gutenberg). Uscì in quell’anno la sua edizione delle Epistulae ad familiares di Cicerone, il primo libro stampato a Venezia.
Nella Serenissima la stampa era favorita anche da un minor peso della censura. Occorre ricordare che, mentre Bomberg poteva stampare a Venezia la sua edizione del Talmud «incensurata», ossia senza sottoporla al vaglio dei censori cristiani, a Roma il libro sacro dell’ebraismo veniva messo all’indice. Famoso il rogo di tutte le copie del Talmud in circolazione a Roma, avvenuto in Campo de’ Fiori il 9 settembre 1553 per ordine del Sant’Uffizio (per la verità un analogo rogo si consumò anche a Venezia, sempre nel 1553, probabilmente per le pressioni esercitate dal papato sul governo della Serenissima).
Aldo Manuzio
Fra gli stampatori-editori attivi a Venezia nei primi anni del XVI secolo, spicca la figura di Aldo Manuzio. La sua importanza non verrà mai sottolineata abbastanza. Manuzio, originario del Lazio ma attivo a Venezia dal 1494, fissò i canoni tipografici del libro moderno: introdusse il formato in ottavo, normalizzò i criteri di interpunzione (non solo impiegando per la prima volta la virgola, l’accento e l’apostrofo nella loro forma odierna, ma inventando il punto e virgola e introducendo il punto fermo a chiusura di ogni periodo), rese sistematica la numerazione di pagina e definì le proporzioni ottimali degli elementi della pagina stessa (rapporto fra margini e gabbia tipografica, dimensione del carattere e interlinea). Nel 1501, poi, inventò un nuovo carattere – il corsivo, versione inclinata del romano – che ancora oggi è chiamato italico in suo onore.
Il capolavoro tipografico di Manuzio è senza alcun dubbio la Hypnerotomachia Poliphili («Combattimento amoroso di Polifilo in sogno»), romanzo allegorico da attribuire al frate domenicano Francesco Colonna, che Aldo diede alle stampe nel 1499. Il libro è accompagnato da illustrazioni di straordinaria bellezza, che ne fanno un unicum nella storia dell’editoria di tutti i tempi. Una riproduzione dell’originale, accompagnata dalla prima traduzione integrale in una lingua moderna, è stata curata da Marco Ariani e Mino Gabriele per i tipi di Adelphi (Milano 1998).
Non solo tipografo
Ma l’importanza di Manuzio non è legata solo alle sue innovazioni tecniche (ancora a lui dobbiamo la diffusione degli enchiridia, i libri in formato tascabile). Il fatto è che Manuzio fu un instancabile promotore di idee e di studi a livello europeo, attraverso una rete di cui era il principale tessitore e che coinvolgeva i più grandi intellettuali dell’epoca, da Erasmo da Rotterdam a Pietro Bembo, da Pico della Mirandola a Thomas Linacre. Manuzio orientò il gusto del suo tempo e diede un contributo decisivo alla rinascita degli studi classici, in particolare di quelli greci. Di certo lo aiutò, in questa sua missione, l’assidua frequentazione della biblioteca di Bessarione.
Gli scambi culturali e le scuole
Il successo della scena editoriale veneziana a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento è senz’altro dovuto anche alla ricchezza degli scambi culturali: da un lato quelli fra la città e il resto d’Europa, dall’altro quelli all’interno della città. I tipografi veneziani si associarono a confraternite laiche, le cosiddette scuole, che avevano finalità di culto e di mutuo soccorso. Al loro interno i membri della borghesia veneziana – ricchi, ma esclusi dal governo della città, che era riservato ai patrizi – trovavano l’ambiente ideale per sviluppare i loro contatti. Le scuole erano insomma luoghi di networking, come si direbbe oggi.
Alla fine del Quattrocento la maggior parte dei tipografi veneziani apparteneva alla Scuola Grande di San Rocco. Nel 1517 gli organi dirigenti della Scuola deliberarono la costruzione della nuova sede, che impegnò per molti anni gli architetti Pietro Bon (fino al 1520), Sante Lombardo (524-1527) e Antonio Scarpagnino (1527-1549). Il compito di decorare le sale della Scuola Grande di San Rocco fu affidato a Iacopo Robusti, detto il Tintoretto. Ancora oggi è possibile ammirare i capolavori realizzati per la Scuola dal grande pittore veneziano.
La donna che legge
Ed è giusto chiudere proprio in questo luogo, in cui si condensa tutto il senso del Rinascimento a Venezia e si indirizza il percorso storico cominciato un secolo prima, con la caduta di Costantinopoli. Fra gli otto grandi telieri realizzati dal Tintoretto per la Sala Terrena spiccano quelli della Santa Maria Maddalena o Maria Egiziaca leggente, ritratta rispettivamente di fronte e di spalle. Pur nella convenzionalità del riferimento iconografico, è forse la prima volta che un pittore rappresenta una figura femminile assorta nella lettura e in totale solitudine.
Certo, il riferimento è alla vita contemplativa, libera dal peso del peccato. Tuttavia, la simbologia religiosa è filtrata attraverso una scelta rappresentativa affatto laica. Quella donna che legge, immersa in un paesaggio irrimediabilmente veneto, è l’inizio di una nuova avventura: l’avventura della modernità, conquistata attraverso l’invenzione del libro come strumento di conoscenza, arricchimento esistenziale e affrancamento dalla paura dell’ignoranza.