La pace incerta fra Google e Cina

Google China

Nelle scorse ore il servizio cinese di Google è risultato inaccessibile per ragioni poco chiare. Attualmente il sito è di nuovo visibile, come conferma la pagina Mainland China service availability della stessa Google. L’indirizzo www.google.cn restituisce una pagina contenente un link alla versione “libera” dello stesso sito, basata a Hong Kong: www.google.con.hk. La situazione può essere monitorata in tempo reale su Twitter, utilizzando il tag #googlecn (ma occorre conoscere il cinese).

Si ritorna quindi a una situazione di stallo, dieci giorni dopo il rinnovo ufficiale – da parte delle autorità di Pechino – della licenza di ISP alla Beijing Guxiang Information Technology Co. Ltd, la società attraverso cui Google opera in Cina. Come tutti sanno, il 23 marzo scorso il colosso di Mountain View aveva deciso di chiudere il suo servizio di ricerca sul dominio Google.cn, per non sottostare ai vincoli della censura cinese. Gli stessi vincoli  – va detto – accettati per anni, fino alla clamorosa rottura di questa primavera. Così, per alcuni mesi, il traffico di Google.cn è stato rendirizzato da Google verso il proprio sito sito di Hong Kong, Google.com.hk, non censurato: prima tramite un re-routing automatico, poi – per ridurre l’irritazione del governo cinese – con un link. Rimando ai miei post Perdere la Cina, salvare il cloud e Ancora su Google, la Cina e altro.

Come evolverà la situazione? Difficile dirlo, con precisione. Il rinnovo della licenza presuppone l’accettazione, da parte di Google, delle norme di Pechino. In particolare un Internet Service Provider può operare in Cina ai sensi del regolamento amministrativo emanato dal Ministero dell’Industria dell’Informazione il 25 settembre 2005 (vedi: Provisions on the Administration of Internet News and Information Service). L’articolo 19 fornisce una lista dettagliata dei contenuti proibiti. Tale lista deriva direttamente da quella stabilita nel Regolamento delle Telecomunicazioni del 2000 (vedi: Regulation Concerning Telecommunications of the People’s Republic of China). L’articolo 57 sancisce il divieto di produrre, copiare, pubblicare e trasmettere qualsiasi contenuto che:

  • si opponga ai principi fondamentali fissati dalla Costituzione
  • comprometta la sicurezza dello Stato, includa segreti di Stato, sovverta i poteri dello Stato o sia atto a minare l’unità nazionale
  • offenda la dignità e gli interessi dello Stato
  • inciti all’odio raziale o danneggi l’unità interetnica
  • vada contro la politica dello Stato in materia religiosa o faccia propaganda a insegnamenti eretici o superstizioni
  • diffonda voci atte a minacciare l’ordine e la stabilità sociali
  • abbia carattere osceno, pornografico, violento, di istigazione al gioco di azzardo o ad altri crimini
  • risulti offensivo o diffamatorio
  • sia comunque proibito da qualsiasi altra norma

A questo punto restano in piedi i tre scenari indicati da Paul Denlinger il 15 luglio scorso su Business Insider (vedi: Who Won In Google’s Showdown With China?): una vittoria di Google, che continuerebbe a fornire contenuti non censurati agli utenti cinesi tramite i propri server di Hong Kong e la tattica del doppio link praticata oggi; una sconfitta di Google, costretta ad abbandonare il promettente mercato cinese; una soluzione di compromesso, consistente più o meno nel ritorno alla situazione antecedente al 23 marzo scorso.

Gli osservatori più attenti, come lo stesso Denlinger o Rebecca MacKinnon (vedi: On Google’s license renewal and principled engagement) scommettono su quest’ultimo scenario. Il governo cinese, infatti, non desidera la fuga di Google dal proprio paese per varie ragioni. Intanto il danno di immagine sarebbe evidente e si ripercuoterebbe sui rapporti con l’amministrazione americana, che sembra intenzionata a fare sentire la propria voce sul tema. Inoltre Pechino, pur sostenendo i campioni locali, è interessata a stimolare la competizione nel mercato interno: senza Google, con chi competerebbe Baidu?

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