Sensualità dei new media

Voglio tornare sugli scenari alquanto apocalittici annunciati da Nicholas Carr, a proposito di ciò che Internet starebbe facendo alle nostre menti (vedi i miei post Che cosa fa Internet alla mente e Anche l’iPad rende stupidi?). Carr sostiene che i processi attivati dall’organizzazione dei contenuti di tipo ipertestuale o dalle interfacce di tipo multitasking ostacolino la comprensione e l’apprendimento, piuttosto che favorirli. Ciò dipende dal fatto che i nuovi media costituiscono ambienti distraenti, dove i percorsi cognitivi vengono sistematicamente interrotti e deviati.

Proponendo una chiave di lettura in parte diversa, Giuseppe O. Longo interviene in difesa dei new media con un nuovo saggio sulla rivista “Nuova civiltà delle macchine” dal titolo Ritorno alla multimedialità (XXVIII, 1, gennaio-marzo 2010, 52-66). Longo, che insegna teoria dell’Informazione all’Università di Trieste, non sottovaluta il rischio di un possibile indebolimento di alcune forme di studio e di apprendimento. Rischio segnalato da “un crescente immiserimento lessicale e grammaticale” (60) e da un certo “disinteresse per le argomentazioni logiche” (ibidem), compensato da un uso disinvolto della contiguità anche occasionale, tipica della navigazione in Internet. Tuttavia Longo intravede anche un fattore di crescita. O meglio, la possibilità di un ritorno a quella capacità conoscitiva tacita che si è progressivamente atrofizzata a vantaggio del logos.

In pratica la tesi di Longo è riassumibile nei seguenti tre punti:

  1. Esistono due modalità di conoscenza: la prima, di tipo sensoriale, è collegata al sistema emotivo e affettivo; la seconda, di tipo linguistico, lavora con mappe superficiali che vengono richiamate con uno sforzo cosciente o sono costruite ad hoc in caso di necessità.
  2. La civilità occidentale ha decretato la progressiva supremazia della conoscenza del secondo tipo, favorita dall’evoluzione del linguaggio e dalla conseguente capacità di costruire rappresentazioni mentali astratte, rispetto alla prima.
  3. La multimedialità può segnare il ritorno a forme di conoscenza guidate dai sensi (quanto meno vista e udito) che agiscono sugli strati profondi della mente e permettono una presa diretta fra corpo e realtà.

Ciò che è più interessante, in questo scenario, è il ruolo attribuito alla macchina o, per meglio dire, al dispositivo (mi riferisco qui alla definizione di dispositivo di Giorgio Agamben: “qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi” (Che cos’è un dispositivo?, 2006). Secondo Longo il dispositivo tecnologico si ibridizza con l’uomo, contribuendo a determinarne le qualità cognitive. Se dunque la mediazione fra soggetto e oggetto, che chiamiamo conoscenza, può essere di due tipi – bio-fisiologica e linguistico-razionale – i dispositivi multimediali intervengono a risvegliare e potenziare le capacità di mediazione del primo tipo, che noi occidentali abbiamo sacrificato per oltre duemila anni a vantaggio di quelle del secondo tipo.

I nuovi media, in definitiva, lavorerebbero più sui sensi che su schemi razionali. E questo rappresenterebbe un gioioso ritorno:

“Così per esempio la televisione, medium per eccellenza delle immagini, ha per effetti: una sorta di stimolazione o regolazione affettiva e umorale di carattere spesso preconscio e non razionale; un recupero di quell’esperienza vivificante che è l’otium goduto nella placidità del puro esistere; una forte presa sull’organismo nel suo complesso, specie sul corpo.” (59)

C’è molto McLuhan nei ragionamenti di Longo, fondati sull’idea che l’esperienza cognitiva fatta attraverso i media plasmi le nostre menti, per via di una modifica delle connessioni cerebrali. Sarebbe interessante approfondire le questione con strumenti più saldi di quelli che qui si possono offrire. Quale fondamento empirico ha, ci domandiamo, la distinzione fra conoscenza razionale e conoscenza “profonda”? In che misura le nostre menti sono effettivamente plasmate dai media?

Due punti mi sembrano rilevanti, fra gli altri. Il primo riguarda il fatto che il linguaggio non è sempre rappresentazione mentale staccata dal simbolico. Certo non lo è nel caso delle lingue ideogrammatiche, come il cinese o il coreano. Ma neppure presso le civiltà che hanno sviluppato codici alfabetici, fondati sull’arbitrarietà del segno. Il secondo punto riguarda la fiducia che dobbiamo porre nelle capacità delle tecnologie mentali di farci conoscere il mondo. Longo lascia intendere che un giusto mix fra conoscenza a fondamento sensomotorio e conoscenza linguistica sia la giusta via. Una via che può essere intrapresa se si sviluppa educazione ai (nuovi) media. Altrimenti il rischio di una involuzione cognitiva è concreto. Lo stesso Longo sembra preoccupato per le menomazioni esibite dai giovani nati e cresciuti all’ombra delle tecnologie mentali (i cosiddetti nativi digitali):

“I giovani digitali sono impazienti, vogliono immediatamente le risposte ai loro quesiti, non si concentrano per risolvere categorie di problemi, ma si gettano sul caso particolare passando subito oltre, non fanno mai una sola cosa alla volta, saltano da Internet alla TV, dal cellulare all’iPod in una divisione di tempo vertiginosa che sfiora la simultaneità del multitasking. Tutto ciò è il risultato dell’incontro precoce con una realtà filtrata dai dispositivi digitali e con la possibilità di comunicare a costo nullo senza limiti spaziali. Armati di telecomando, mouse e cellulare, hanno il mondo a portata di clic, non conoscono i tempi lunghi della riflessione e ai libri e agli svaghi all’aria aperta preferiscono i videogiochi, anche i più violenti, senza imbarazzi morali. Infine l’Homo Zappiens non ama la tecnologia di per sé, bensì per ciò che può consentirgli di fare, dimostrando tutta la chiusura autoreferenziale della generazione digitale, che adotta un atteggiamento magico, strumentale e indifferente.” (61)

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