In-territorio-nemico

Scrittura collettiva e twitteratura

Con il romanzo di ispirazione storico-resistenziale In territorio nemico, uscito ad aprile per minimum fax, il mondo della scrittura collettiva si arricchisce di un nuovo, ambizioso passaggio. Lo firmano 115 autori, riuniti sotto la sigla SIC (Scrittura Industriale Collettiva). Confesso di averlo trovato sciapo. Mi aspettavo più “gioia da leggere”, secondo ciò che fu promesso quattro anni fa. Ma anche più gioia di scrivere. Sospetto che le energie degli estensori si siano in gran parte consumate nella ricerca di una coerenza diegetica – che infatti c’è, evidente – a discapito del fatto espressivo, della perspiquità letteraria, della potenza dei personaggi. Talvolta l’urgenza del racconto gioca brutti scherzi, si depotenzia nel cliché narrativo e linguistico. Ne In territorio nemico accade troppo spesso: la terza persona, i tempi verbali volti al passato, l’inevitabile “freddo della lama”, i denti che altrettanto inevitabilmente “stridono”, un rumore che giunge “inaspettato”, i capitoli che si chiudono a sipario su un protagonista smarrito, “mentre fuori comincia a piovere”.

Resta il fatto che il metodo SIC è potente (vale la pena di approfondirlo, qui). Un metodo che lavora in ispecie sulle possibilità del récit, superando la sindrome della staffetta che mina altre imprese di scrittura collettiva. Lo spiega bene Vanni Santoni nella bella intervista concessa ad Arturo Robertazzi (In Territorio Nemico, il Romanzo a 230 Mani e 115 Teste). Qual è allora il punto? Il punto è che la scrittura non è solo récit disincarnato. È anche parole. E qui il metodo appare perfettibile. Perché l’esigenza di omogeneità non può tradursi in trivializzazione stilistica. L’alternativa all’affollamento di personalità non può essere l’assenza di personalità. Le regole del racconto hanno bisogno di un testo. A volte, anzi, il testo viene prima delle regole. La scrittura è, platonicamente, lavoro di scavo nel testo, alla ricerca della sua cifra.

Ecco perché, mentre guardo con grande interesse alle esperienze di Wu Ming, SIC e tanti altri, sono più attratto da un altro tipo di esercizio. Che cosa abbiamo fatto con #LunaFalò e #Leucò? In un certo senso si è trattato di applicare un procedimento inverso, basato sull’idea che il primum è un testo letterario dato. In entrambi i casi il punto di partenza, da cui si è dipanato lo sforzo collaborativo della comunità, non era uno schermo bianco, ma un testo che preesisteva: un testo che si è offerto a noi nella sua sacralità, con il suo bagaglio di domande, suggestioni e valori formali, con le sue idee e il suo stile. Un testo che c’era prima di noi e che si collocava dentro una tradizione: la letteratura. Un testo opera di un autore, che chiedeva di entrare in contatto con noi. Dunque abbiamo letto, commentato, riscritto, interpretato, dissacrato, ricontestualizzato, smentito quel testo. Ma ogni tweet, ogni parola che abbiamo scritto non ci sarebbero stati, se non come risposta a esso. Che cos’è questo tipo di operazione? In mancanza di soluzioni più convincenti, l’abbiamo chiamata twitteratura. Ma è evidente che usiamo tale termine in modo differente rispetto ad altri, i quali intendono con esso forme di espressione letteraria – non necessariamente collettive – basate sulla piattaforma Twitter e quindi sulla regola aurea della brevità. Twitteratura come aforisma, frammento o haiku, dunque.

In sostanza possiamo riconoscere all’opera una serie di opposizioni: scrittura individuale vs scrittura collettiva, scrittura estesa vs scrittura breve, scrittura vs interpretazione. In questo senso la twitteratura che ho in mente è una forma di ermeneutica/decostruzione fondata sulla brevità e sullo sforzo collaborativo.

5 thoughts on “Scrittura collettiva e twitteratura

  1. Caro Paolo,

    molti spunti interessanti in questo tuo articolo.

    Io però farei distinzione, non metterei cioè, sullo stesso piano i due esperimenti citati, In Territorio Nemico, esperimento di scrittura collettiva, e Twitteratura, esperimento di riscrittura e ricontestualizzazione.

    Detto ciò, vorrei poi fare due considerazioni.

    Spezzerei una lancia a favore di In Territorio Nemico. Scrivere un libro è già una grande sfida, scriverne uno a 115 mani una sfida gigantesca. Gli amici di Scrittura Industriale Collettiva hanno già realizzato un grande risultato. Da un’idea – folle qualcuno potrebbe dire, Santoni e Magini hanno sperimentato, studiato, innovato, hanno realizzato un romanzo pubblicato da Minimum Fax, una signora casa editrice. Questo è di per se un risultato eccezionale. Poi, come scrivevo da qualche altra parte, come ogni romanzo, anche quello di SIC, una volta in giro, dovrà competere con i più grandi e dovrà superare un altro esame. Vedremo se In Territorio Nemico passerà l’esame della letteratura.

    Per quanto riguarda Leucò, mi piace includere Leucò in una corrente che Kenneth Goldsmith chiama Uncreative Writing (mi permetto di aggiungere un link: http://bit.ly/YS14Cr ), se vuoi, scrittura acreativa. Partendo dal principio che il mondo è pieno di testi che vanno ricotenstualizzati e che il “Context is the new content”, Goldsmith sostiene che l’autore di oggi sia un riscrittore, uno che usa computer e big data e che fa uso aggressivo del “copy and paste”.
    Mi pare che Leucò sia un bellissimo esempio di scrittura acreativa.

  2. Ciao Paolo,
    grazie per gli spunti, importantissimi. Due note veloci: i compositori, nel metodo SIC, possono comporre ma non scrivere, dunque lavorano con ciò che hanno. Prendono il meglio (o almeno cercano di prendere il meglio), ma non possono scrivere. Sarebbe stato facile per scrittori di spiccata attitudine letteraria come Santoni & Magini modificare il testo verso una lingua più alta, ma ciò avrebbe significato tradire le premesse teoriche del progetto SIC. Per ottenere una lingua “alta” in un’opera SIC, servono necessariamente tutti scrittori esperti, mentre i 115 vanno dall’esperto all’esordiente assoluto, passando per il blogger; anche per questo si è deciso di puntare sulla letteratura di genere – con un romanzo storico, sì, ma storico-avventuroso e non alla Pynchon o alla Vollmann, per capirci :). Inoltre, come gli stessi fondatori spiegano qui http://www.nazioneindiana.com/2013/03/27/atlantide-non-fu-affondata-in-un-giorno-di-scrittura-collettiva-e-letteratura in questa fase sperimentale – dato che In territorio nemico è il primo romanzo scritto col metodo SIC, la “letterarietà” del progetto è da ricercarsi – se la si vuole ricercare – innanzi tutto nel processo produttivo, che è a ogni effetto *un sentiero nuovo per arrivare al romanzo*; crediamo che – visti i risultati ottenuti con questo libro, al primo tentativo – il metodo SIC abbia una potenza tale che con un team più ristretto, e composto interamente da scrittori esperti e dotati di lingua letteraria, non dovrebbe essere impossibile creare un romanzo che abbia anche quella.

  3. e se ci editi quell’ “ha una potenza” in “abbia una potenza” ci fai un piacere – l’errore nasce dall’aver cambiato un “è evidente che” in un “crediamo che” 😀

  4. Concordo con ArtNite (Arturo Robertazzi): occorre spezzare una lancia a favore di In territorio nemico. Considero anzi l’esperimento fra i più interessanti nell’ambito della scrittura collettiva, almeno in Italia (ma l’Italia è tutt’altro che indietro!) Con le mie osservazioni intendevo più che altro suggerire un percorso evolutivo. Che poi è lo stesso, mi sembra, cui alludono gli amici di SIC quando non escludono dal proprio orizzonte prospettico obiettivi di natura “letteraria”. D’altronde è qui che il gioco si fa complesso. Che cosa si intende per “letterarietà”? Lo sfruttamento di una lingua “alta”? Il termine è equivoco. Quella dell’Inferno non è lingua alta (“aulica”), ma bassa o bassissima. Dante l’ha emancipata facendone un uso letterario. Né mi fiderei troppo dell’appello ai “professionisti” o agli “esperti”. Fra i quali si annidano da qualche generazione i maggiori responsabili di una produzione narrativa senza stile (Andrea De Carlo) o di uno stile senza lingua (Alessandro Baricco).

    Ancor più d’accordo con il riferimento a Kenneth Goldsmith e alla questione centrale del contesto. Siamo immersi in quella che Geert Lovink chiama la “cultura tecno-laica dei commenti”. Il testo è diventato funzionale al sistema di commenti che genera. E la cura del testo è diventata più importante del testo stesso. Ma c’è in questo un paradosso che va in qualche modo risolto. Il fatto di non curarci “granché di quanto ‘dice’ con esattezza il testo” – osserva Lovink – ha qualcosa di “amorale”. Siamo alla svolta quantitativa dei commenti, funzionale agli obiettivi di business di Facebook & C. “Anziché cimentarci in un’attenta lettura, diamo una scorsa intuitiva. Se decidiamo di commentare, spesso si tratta di una metabattuta ironica, un’osservazione sulle possibili implicazioni del post in oggetto – oppure su cosa voglia intendere l’autore-celebrità”. Ebbene, esperimenti come #LunaFalò e #Leucò nascono dall’urgenza di ritornare al testo, al suo carattere perentorio e ineludibile. La twitteratura che abbiamo praticato è una cura del testo. Una cura che – cito ancora Lovink – risponde criticamente alla cultura dei commenti “non addomesticati” e alla “perdita d’autorità dell’artista precedentemente noto come autore”.

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