Parola di Pulitzer

Due domande sul giornalismo

Riporto alcuni stralci delle interviste rilasciate a “Style Magazine” (4, aprile 2009) dai premi Pulitzer Thomas Friedman, Lowell Begman, Oded Balilty e Steve Fainaru sul futuro del giornalismo. Le opinioni di questi mostri sacri dell’informazione americana riflettono chiaramente la cultura del giornalismo professionale, incentrata sull’idea che la produzione di notizie (di qualità) presupponga vocazione al mestiere, dedizione e spirito di sacrificio, oltre a competenze specifiche e a un modello organizzativo ad hoc. Roba per giornalisti e redazioni, insomma, non per semplici cittadini e blog.
Internet rivoluziona il mondo delle news?
Friedman: “C’è una richiesta continua di notizie e commenti. Non a caso NYTimes.com è il terzo web site al mondo. Come editorialista non potrei chiedere di meglio. Ho lettori in India, Italia, Giappone. Il problema è che non riusciamo a produrre profitto. […] A mia figlia del quotidiano stampato non importa già un fico secco. […] Certamente testate come San Francisco Cronicle o Chicago Tribune si ridimensioneranno in quotidiani locali, quelli a livello nazionale si ridurranno. E se sei un giovane che ha voglia di fare l’inviato in Afghanistan, prendi e parti. Nel 1983 a Beirut c’erano almeno dieci corrispondenti fissi, oggi a Kabul al massimo due. I free lance possono farsi una fortuna. […] La gente tornerà a verificare le fonti migliori, quelle di cui è provata la credibilità. Immagino che il New York Times batterà sconosciuto.com in fatto di accuratezza. E questo farà la differenza.”
Bergman: “Sembra di essere tornati all’inizio della stampa quando i quotidiani erano pieni di ogni tipo di notizie stravaganti. Senza lavoro di giornalisti esperti che organizzano le news per importanza chi ti garantisce la bontà dell’informazione? […] Bisogna tornare a cercare le notizie. Lo scandalo Watergate è scoppiato perché Bob Woodward era un giovane reporter che batteva le strade inseguendo una buona storia ed era in un commissariato quando portarono quelli che avevano forzato la sede dei democratici.”
Balilty: “L’importante è la storia: se puoi raccontarla solo con un cellulare mi va bene. Ma la fotografia classica dei professionisti rivela una profondità di dettagli che altrimenti sarebbe perduta. E poi c’è un problema etico: chi garantisce che le immagini amatoriali non siano manipolate?”
Fainaru: “I blog e i siti web vivono nutrendosi, per la maggior parte, delle notizie dei gradi giornali. Penso che saranno le persone a decidere le informazioni che vogliono e la loro affidabilità. Il Washington Post non ha mai avuto così tanti lettori come ora che è online. Il potenziale è enorme. Come possa fruttare economicamente non so.”
Il grande giornalismo di inchiesta è morto?
Bergman: “[Il giornalismo investigativo] costa e non dà profitti immediati in termini di lettori o di pubblicità. Per sua natura rivela notizie di cui non si è mai sentito parlare e non sempre, non subito, sono esplosive. Ci sono mie inchieste che sono state capite cinque anni dopo.”
Fainaru: “[…] Le grandi inchieste richiedono un impegno enorme di tempo e denaro. In Iraq sono rimasti solo pochissimi corrispondenti e questo mi preoccupa. Gli Usa hanno interessi in posti lontani e scomodi e non c’è nessuno per capire cosa succede. Penso che sia una domanda davvero importante che è alla base della democrazia stessa.”

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