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Missili e tweets

Secondo alcuni osservatori l’escalation in corso da alcuni giorni a Gaza e in Israele rappresenta un punto di svolta nell’uso dei nuovi media – e di Twitter in particolare – come strumenti di propaganda bellica. A mio parere è piuttosto la manifestazione evidente di alcune dinamiche che caratterizzano l’ecosistema informativo in Rete. Dinamiche di cui è bene essere consapevoli e che non comportano necessariamente un progresso. Come sempre, un approccio critico aiuta a ricondurre i fenomeni entro l’alveo della realtà, sottraendoli alle sirene dell’ideologia da quattro soldi.

La notte del 14 novembre, quando i lanci di missili da Gaza si sono intensificati e Israele ha dato il via alla sua controffensiva aerea, è stato importante seguire il live tweeting di Andy Carvin (@acarvin), il quale con la consueta perizia ci ha offerto un flusso vivido di informazioni, sentimenti e immagini. Materiale raccolto in tempo reale da testimoni di entrambi i fronti ed espressione di differenti punti di vista. Carvin ha operato con la dovuta delicatezza, evidentemente consapevole dell’ipersensibilità dell’audience rispetto alle diverse posizioni sul campo. Ma non si è certo censurato, come dimostrano le critiche piovutegli addosso dagli opposti estremismi. Cui ha risposto con prontezza:

 

Ci è parso di trovare incarnata nel live tweeting di Carvin quella trasparenza nella costruzione del processo narrativo che, secondo Zeynep Tufekci, rappresenta la qualità migliore offerta dai social media nel reporting di guerra (si veda Twitter and the Anti-Playstation Effect on War Coverage, un post pubblicato il 28 marzo 2011, nel clangore delle rivoluzioni arabe). Osservava la studiosa, che lavora presso il Center for Information Technology Policy della Princeton University:

Television functions as a distancing technology while social media works in the opposite direction: through transparency of the process of narrative construction, through immediacy of the intermediaries, through removal of censorship over images and stories (television never shows the truly horrific pictures of war), and through person-to-person interactivity, social media news curation creates a sense of visceral and intimate connectivity, in direct contrast to television, which is explicitly constructed to separate the viewer from the events.

Ma in questi giorni abbiamo sperimentato un’altra valenza dei social media, che non nega la validità delle osservazioni della Tufekci, ma ci costringe a considerare anche un punto di vista diverso. Lo scenario di una verità manipolata a fini propagandistici a colpi di tweets non è mai stato così chiaro. Da un lato l’account delle forze armate israeliane (@IDFSpokeperson), con i suoi 180 mila followers; dall’altro @AlqassamBrigade, forte di quasi 35 mila followers.

IDF tweet on Ahmed Jabari elimination

Altro che trasparenza del processo narrativo: come fa giustamente notare Jessica Roy (Social Media Companies Have Absolutely No Idea How to Handle the Gaza Conflict), c’è qualcosa che disturba nell’idea che due parti coinvolte in uno storico conflitto si impegnino nella cronaca in tempo reale dei rispettivi lanci di ordigni:

There is no empowerment or revolution here: just a dark, sinking feeling as we watch the bloodshed unfold in real time.

Nulla di nuovo, da un certo punto di vista. In tempi di guerra non ci si può attendere obiettività e trasparenza dalle parti in causa. Ma l’uso dei social media come armi segna un punto di non ritorno. Non possiamo permetterci, d’ora in avanti, di guardare alle nuove tecnologie della comunicazione con gli occhi entusiasti e ingenui con cui lo abbiamo fatto in passato. Alla fine non si può non consentire con Alan Cowell, il quale sul “New York Times” di ieri (A Growing Void Where Facts Were Once Checked) enuncia il paradosso di un giornalismo tradizionale che dovrebbe cogliere l’opportunità di rinnovarsi, approfittando delle ambiguità e dei limiti del Web come strumento di “war reporting”, ma che non ci riesce per mancanza di risorse.

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