Gatekeeping sociale

C’è sempre un gatekeeper. Ieri il compito di controllare e configurare gli accessi all’informazione era presidiato dalla stampa e dai media tradizionali, che in questo senso svolgevano un ruolo fondamentale nell’elaborazione del discorso pubblico. Secondo David Manning White, che per primo studiò il fenomeno nel 1949, il 90 per cento delle notizie ricevute dalla redazione di un quotidiano locale americano non veniva destinato alla pubblicazione. Poi, con l’avvento dei nuovi media, personali e sociali al tempo stesso, si è cominciato a preconizzare la fine del gatekeeping tradizionale. Il processo attraverso il quale le idee e le informazioni sono filtrate dal giornalista per essere rese pubbliche viene messo in crisi dalla capacità dei nuovi media di disintermediare questa funzione. È la retorica della blogosfera e delle reti ti tipo mesh: da un’interazione di tipo lineare tra fonte, giornalista e pubblico, si passa a un’interazione di tipo circolare o – per meglio dire – “a maglia”. Barzilai-Nahon parla di network gatekeeping. Non solo i giornalisti, ma una pluralità di attori che, insieme, costituiscono il nuovo ecosistema della notizia.

Il realtà il problema dei filtri continua a porsi. Gatekeeping non significa solo selezionare, discriminare, censurare. Significa anche contestualizzare. E la contestualizzazione è indispensabile per passare dall’informazione alla conoscenza. Quella della networked society, nella quale chiunque può accedere a qualunque fonte, senza più bisogno di intermediazioni di sorta grazie alle nuove tecnologie, rischia di essere un’utopia. Ecco perché hanno successo i servizi che, nel tentativo di fornire strumenti di orientamento nel grande flusso di informazioni, applicano nuovi criteri di gatekeeping.

Hanno successo, in particolare, i meccanismi di gatekeeping sociale. Essi selezionano le informazioni non sulla base dei criteri di notiziabilità che applicherebbe un giornalista, ma in funzione del gradimento espresso dal network di amicizie del singolo utente. È il caso di Summify, il servizio nato di recente con l’intento di filtrare, tra i feed di Facebook, Twitter e Google Reader, le notizie più commentate e più condivise all’interno dei circuito di conoscenze dell’utente. L’assunzione è che tali notizie siano le migliori, ovvero le più interessanti dal punto di vista dell’utente stesso.

What is Summify? from Team Summify on Vimeo.

A me sembra evidente che in questo modo la sfera pubblica si parcellizzi in un insieme disperso di reti chiuse, all’interno delle quali le notizie tendono a rimbalzare e quindi a risuonare uguali a se stesse. Già un paio di anni fa Clive Thomson scriveva (Manufacturing Confusion. How more information leeds to less knowledge, “Wired”, febbraio 2009, p. 38):

People graze all day on information tailored to their existing worldview. And when bloggers are talking heads actually engage in debate, it often consists of pelting one another with mutually contradictory studies they’ve Googled.

Non è questa, direi, la sfera pubblica che sognava Jürgen Habermas.

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