Freedom to connect: è solo una coperta retorica?

Il discorso pronunciato dal Segretario di Stato americano Hillary Clinton il 21 gennaio scorso al Newseum di Washington DC merita un bookmark (il testo integrale è disponibile sul sito di Foreign Policy, qui). Sebbene ispirato alla pubblicistica ingenua della Rete liberatrice e condito con una serie di luoghi comuni sulla proprietà salvifiche dei nuovi media sociali, l’intervento della Clinton contiene due passaggi assai rilevanti sul piano concettuale e politico.
Il primo punto riguarda il riferimento alla libertà di espressione e di riunione (“freedom to connect”) come valore concreto da difendere. Un riferimento che non si pone in alternativa ai principi universali di democrazia, ma che è molto più facile da declinare e da verificare nella sua applicazione. La misura della democrazia di un paese è ambigua, la freedom to connect lo è assai meno. E in molti paesi democratici la freedom to connect è a rischio.
Il secondo aspetto è relativo al diritto all’anonimato (“anonymous speech”) come fattore abilitante della libertà di espressione. Questo mi sembra un passaggio non banale del ragionamento della Clinton. Esso sottende una visione della Rete che pochi governi occidentali sarebbero disposti a sottoscrivere. In Italia, per dire, esiste una norma (il cosiddetto Decreto Pisanu, prorogato anche per il 2010) il cui spirito è lontanissimo da quello della Clinton. Il decreto impone a chi offre accesso a Internet in un pubblico esercizio o in un circolo privato di registrarsi presso la Questura. Inoltre obbliga l’esercente a tenere un registro dei dati dei propri clienti o soci che si connettono a Internet. Con l’ulteriore obbligo a un’identificazione certa degli utenti della propria rete (tramite carta d’identità o numero di cellulare) e alla custodia dei dati sul traffico che costoro hanno effettuato su Internet, perché le forze dell’ordine, all’occorrenza, possano consultarlo.
Ora, proprio perché la freedom to connect e l’anonymous speech sono condizioni poco tutelate in molti paesi del mondo, la Clinton avrebbe fatto meglio a non ricorrere ai soliti esempi (Cina e Iran). Avrebbe potuto citare anche i casi di paesi amici che non hanno le carte in regola. Non dico l’Italia, ma almeno la Giordania, dove preoccupa la decisione della Corte Suprema di assoggettare i contenuti digitali alla controversa Press & Publications Law (si veda la notizia del Jordan Times qui). Insomma: o la libertà di connettersi è davvero un diritto universale, oppure rischia di apparire come una coperta retorica da usare in un nuovo tipo di guerra fredda.

Per approfondimenti, consiglio le analisi di Marc Lynch e Evgeny Morozov su Foreign Policy.

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