Una tavoletta non basta

La lettera che Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, ha indirizzato giovedì scorso ai suoi colleghi è stata ampiamente commentata (il testo è qui). In generale si è voluta evidenziare la  lucidità del messaggio. In sintesi de Bortoli richiama i giornalisti alla necessità di organizzare i processi produttivi, oggi pensati per un quotidiano tradizionale, sul modello della piattaforma crossmediale: carta, web, televisione, iPad. O si fa così – ammonisce de Bortoli – o si è condannati alla marginalizzazione. Bersaglio polemico del direttore è l’impianto di regole, maturato attraverso accordi aziendali e prassi consolidate, “pensato nell’era del piombo”. Un impianto che – osserva de Bortoli “prima o poi cadrà […] con fragore e conseguenze imprevedibili sulle nostre ignare teste”:

Non è più accettabile che parte della redazione non lavori per il web o che si pretenda per questo una speciale remunerazione […] Non è più accettabile l’atteggiamento, di sufficienza e sospetto, con cui parte della redazione ha accolto l’affermazione e il successo della web tv. Non è più accettabile, e nemmeno possibile, che l’edizione Ipad non preveda il contributo di alcun giornalista professionista dell’edizione cartacea del Corriere della Sera. Non è più accettabile la riluttanza con la quale si accolgono programmi di formazione alle nuove tecnologie.

La lettera di de Bortoli ricorda quella con cui, il 2 agosto 2005, Bill Keller (direttore esecutivo del New York Times) e Martin Nisenholtz (vice presidente esecutivo) comunicavano ai giornalisti l’avvio della graduale fusione fra la redazione cartacea e quella online. Scopo della integrazione era il raggiungimento della cosiddetta platform neutrality: “we care only about our journalism, not about whether we transmit it to our audience on paper or via streams of electrons” (si veda il testo della e-mail su Poynter Online). Cominciava così l’era della integrated newsroom.

I giornalisti del Corriere hanno risposto a de Bortoli proclamando due giorni di sciopero. Scelta sbagliata, la quale ha scatenato la retorica della blogosfera: il solito ritornello con il quale si vuole esaltare il presunto contrasto fra la cultura giornalistica tradizionale (che non capisce il nuovo corso, lo teme e lo ostacola) e la ricchezza dell’informazione “dal basso”, fatta da gente fresca e disinteressata, finalmente libera di esprimersi grazie alle tecnologie della Rete.

Ora, a parte il fatto che la casta dei blogger rischia di rivelarsi anche peggiore di quella dei giornalisti, a me sembra importante un punto. Non si può usare la lettera di de Bortoli per trarne una conclusione quantomeno affrettata, secondo la quale i problemi del Corriere si riducono alla mancata accettazione delle nuove tecnologie da parte di una categoria refrattaria al progresso. Come se bastasse pronuciare un sì convinto e senza riserve alla web TV o al tablet per uscire da una crisi difficilissima. Sono ben altre le gatte che in via Solferino si devono pelare. E la lettera di de Bortoli rischia, magari involontariamente, di allontanarci dalle questioni davvero importanti.

Più che di applicazioni per iPad, il Corriere ha bisogno di una identità editoriale chiara, che faccia i conti i tre nodi del momento. In primo luogo l’affermazione, in tutto il mondo, di un giornalismo sempre più schierato e triviale, lontano mille miglia dal bon ton che de Bortoli rivendica. Secondariamente i rinnovati condizionamenti della proprietà, fatta di poteri davvero forti (ne è rappresentazione plastica la composizione del nuovo CDA). Infine lo sfarinamento civile di quella borghesia moderata cui il giornale si è sempre rivolto e che oggi è divenuto assai arduo intercettare, se non in chiave populistica. Una borghesia equipaggiata con iPad, magari. Ma poco interessata ai malinconici equilibrismi di Pierluigi Battista e Angelo Panebianco.

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