In Italia la tutela dell’altrui reputazione limita la libertà di stampa. Fra i due valori – reputazione altrui da un lato, libera manifestazione del diritto di cronaca dall’altro – il primo rischia spesso di prevalere sul secondo. Sto esagerando? Pensiamo alla forza di condizionamento esercitata sui giornalisti dalla previsione, nel nostro ordinamento, del reato di diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di fatto determinato (legge 8 febbraio 1948, n. 47). Tale reato sta all’articolo 21 della Costituzione in un rapporto che – per usare le parole di Oreste Flamminii Minuto – non esitiamo a definire “schizofrenico”. La schizofrenia è nel fatto che, laddove la Costituzione sancisce solennemente il valore della libertà di stampa, la suddetta legge considera il comportamento diffamatorio talmente allarmante sul piano sociale da meritare fino a sei anni di galera (l’attribuzione di un fatto determinato costituisce infatti un’aggravante per cui il legislatore ha previsto un inasprimento della pena detentiva). Peraltro, anche quando non si ravvede l’aggravante, permane il reato di diffamazione semplice, sanzionato dal Codice Penale (artt. 595, 596, 596 bis, 597, 599).
Stabilire un confine netto fra l’esercizio della libertà di stampa e la lesione della reputazione altrui non è semplice. Le numerose sentenze di Cassazione o della Corte Costituzionale non mi sembrano fare chiarezza (si veda la rassegna disponibile sul sito dell’Ordine dei giornalisti) Qualunque critica nei confronti di chi comanda – osserva ancora Flamminii Minuto – può essere letta come diffamazione. Non a caso il potere si serve della querela – che, anche quando non viene sporta, pende sulla testa del giornalista come una spada di Damocle – quale strumento di intimidazione. E parliamo di un’intimidazione che dura nel tempo, dal momento che il reato si prescrive in quindici anni, riducibili a sette e mezzo con la concessioni delle attenuanti generiche.
Insomma: se il giornalista è limitato nell’esercizio della cronaca e della critica, se le convenienze dei poteri prevalgono sul diritto dell’opinione pubblica a conoscere, di quale libertà di stampa stiamo parlando? Si obietterà che i giudici dei tribunali italiani hanno cercato, nel tempo, di conciliare il dettato costituzionale con quanto previsto dalla legge in materia di diffamazione. In particolare hanno stabilito che, in nome del diritto di cronaca e di critica, il giornalista può “diffamare”. Lo può fare a condizione che la notizia sia: 1) vera, 2) di pubblico interesse, 3) esposta in termini non aggressivi sul piano personale. Eppure il problema resta, aggravato dal fatto che, secondo la legge del 1948, “la persona offesa può richiedere oltre al risarcimento del danno una somma a titolo di riparazione pecuniaria”, proporzionale “alla gravità dell’offesa e alla diffusione dello stampato”. Il bel libro di Flamminii Minuto Troppi farabutti. Il conflitto tra stampa e potere in Italia (Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2009) contiene una gustosa rassegna di episodi nei quali i giudici dei tribunali italiani hanno applicato la legge considerando il diritto di cronaca come “non esimente”. Tanti giornalisti sono stati condannati, in questi anni, per avere diffamato nell’esercizio del diritto di cronaca. In alcuni casi la condanna è intervenuta anche quando la cronaca è consistita nel riferire parole altrui. Se il giornalista riporta la dichiarazione di Tizio, secondo cui “Caio è un cretino”, e se il giudice ritiene che tale dichiarazione sia lesiva dell’onorabilità di Caio, allora anche il giornalista può essere considerato colpevole, in quanto ha agito da cassa di risonanza delle parole di Tizio. Parole – si intende – effettivamente pronunciate.
A mio parere non esiste che una soluzione: creare un maggiore contesto di chiarezza giuridica, in cui il diritto di cronaca sia previsto come prevalente, sempre e comunque, sul diritto alla tutela dell’onorabilità personale. Se necessario, anche abolendo il reato di diffamazione a mezzo stampa. Non sarebbe ora di abrogare la legge del 1948?
Caro Paolo,
il pericolo che il “potere” imbavagli il gioirnalista è evidente che c’è: il “potere” – è sotto gli occhi di tutti in questi giorni – imbavaglia altro che il giornalista, “imbavaglia” la democrazia. E come lo fa? Cambiando le “regole”. Cambiandole quando e come serve ad esso.
Dunque, mi domando, se ci fossero regole?
I princìpi che riporti della giurisprudenza (notizia vera, di pubblico interesse, non aggressiva) mi paiono princìpi che il giornalista debba rispettare (ad evitare una – giusta – denuncia e a tutela della sua credibilità).
Come nella “bilancia” della giustizia, però, giustamente, andrebbe posta anche qualche “regola” per il “potere”, a tutela del diritto costituzionalmente garantito della libertà di stampa.
Bisogna che vi siano quindi delle proposte (magari dei giornalisti) – tipo un regolamento normativo – che impedisca o (suggerisco) sanzioni anche la denuncia al giornalista se rivelatasi non fondata, che non sia solo una sanzione economica (i politici non hanno questi problemi), ma, per esempio, sanzionatoria riguardo all’esercizio di cariche pubbliche.
Un carissimo saluto.
Alessio
Un ringraziamento a Paolo Costa per la recensione favorevole al mio libercolo.
Oreste Flamminii Minuto