Più Al Jazeera che Facebook

Continua a essere oggetto di analisi il ruolo giocato da Internet e in particolare dai social network come Facebook, Twitter e YouTube in occasione delle vicende che hanno sconvolto il Medio Oriente e il Nord Africa in questo inizio d’anno. Un approccio che guardasse alla sola dimensione quantitativa del fenomeno bollerebbe la Rete come ininfluente. Prendiamo il caso dell’Egitto: qui gli utenti di Internet non raggiungono il 30% della popolazione. La penetrazione di Facebook, il servizio più popolare dopo Google, supera di poco il 7% (circa 5 milioni di utenti). Peraltro vale la pena di aggiungere che la penetrazione di Al Jazeera (via satellite) è di poco superiore, raggiungendo il 10% della popolazione. Incrociando i dati sul numero di account con i profili socio-demografici degli utenti, possiamo dire che l’uso dei nuovi media coinvolge una élite: i giovani istruiti e urbanizzati. Certo, dietro a questa élite c’è una audience potenziale cospicua, considerando che l’età media della popolazione egiziana è di 24 anni e che nell’area metropolitana del Cairo si concentra un quarto degli abitanti di tutto il paese.

D’altra parte, se Internet non è un fenomeno di massa, neppure le rivoluzioni lo sono. Per cui l’analisi deve partire da altro. A me sembra che, ben più di Facebook, il network televisivo Al Jazeera sia stato il medium in grado di definire il tono delle rivolte di gennaio-febbraio e di condizionarne gli sviluppi, grazie al suo potere di mobilitazione e di influenzamento.

L’ultimo numero di “Limes” (1, 2011) ospita due contributi che, in questo senso, mi sembrano utili per comprendere il ruolo giocato da Al Jazeera (continuo a usare la grafia adottata sul sito inglese del network televisivo, diversa da quella preferita dalla stessa “Limes”). Mirko Colleoni (Aljazeera araba regista visibile delle rivolte, pp. 197-204) pone l’accento sia sulla capillarità della copertura informativa del canale in lingua araba di Al Jazeera, garantita nonostante l’oscuramento delle frequenze operato dalle autorità egiziane attraverso il satellite NileSat a partire dal 28 gennaio, sia sulla linea editoriale dell’emittente qatarina, evidente in alcune scelte di palinsesto molto precise e nella composizione dei promo. Si pensi solo alla decisione di riproporre, nei giorni più caldi della rivolta, un documentario del 2007, Waraa al-Shams, sulle pratiche di tortura del regime di Mubarak.

Sempre su “Limes” Augusto Valeriani (Aljazeera e la rivoluzione si sono aiutate a vicenda, 205-210) evidenzia invece come il ruolo centrale svolto da Al Jazeera nei sollevamenti regionali in corso sia funzionale agli interessi geopolitici del Qatar e agli obiettivi commerciali della stessa emittente televisiva. La linea “movimentista” di Al Jazeera nasce de lontano e risponde alla volontà di mettere in difficoltà i pilastri dello status quo regionale: l’Egitto di Mubarak, appunto, ma anche l’Arabia Saudita. Il 28 gennaio Al Jazeera è risultata la televisione più seguita in Arabia Saudita, superando – fatto eccezionale – le emittenti locali MBC1, MBC 4 e MBC Drama (fonte: Mindsight). Il successo ottenuto nelle scorse settimane consente alla televisione qatarina di immaginare finalmente uno sbarco in grande stile negli Stati Uniti, per fare concorrenza diretta alle corazzate CNN e Fox News. Non è dunque un caso che Ayman Mohyeldin, uno dei corrispondenti più noti del canale in lingua inglese di Al Jazeera, abbia ringraziato espressamente il pubblico americano durante uno dei suoi collegamenti dal Cairo, fornendo il proprio volto alla campagna Demand Al Jazeera in the US. Insomma, come fa notare Matthew Campbell su Bloomberg.com, la televisione di Doha è entrata a pieno titolo nell’arena in cui si combatte la battaglia per la conquista dell’audience globale (Al Jazeera Enrages Dictators, Wins Global Viewers With Coverage of Unrest, 25 febbraio 2011).

Demand Al Jazeera in USA
Il banner della campagna Demand AJ in USA

Ma il successo di Al Jazeera è frutto anche di una coerente strategia multipiattaforma, basata sull’impiego integrato del satellite e di Internet. Il che ha significato da un lato una forte presenza con il proprio network di siti web e nei social media (Facebook e YouTube in particolare), dall’altro il coinvolgimento diretto degli utenti nella raccolta di documenti e testimonianze sul campo. Fino ad arrivare a un’iniziativa in stile WikiLeaks come Al Jazeera Transparency Unit, lanciata in gennaio per permettere agli utenti di sottoporre in redazione materiale di qualsiasi tipo: documenti, messaggi di posta elettronica, fotografie, audio e video clip (per la verità, l’utente non è trattato in forma anonima, se non altro perché riceve sul proprio computer un cookie inviato dal server di Al Jazeera). Durante i giorni più caldi della rivolta egiziana l’audience del sito di Al Jazeera in lingua inglese, composta per oltre la metà da utenti degli Stati Uniti, è cresciuta del 2500 per cento. La maggior parte di questo traffico si è concentrata sul servizio di live streaming, che fra il 28 e il 31 gennaio ha generato oltre 4 milioni di views (di cui 1,6 milioni negli Stati Uniti). Quanto a Twitter, anch’esso è stato utilizzato come veicolo di notizie, ma soprattutto come canale di promozione dello streaming via Internet. Non a caso, considerando tutti i messaggi contrassegnati con gli hashtag #Jan25 e #egypt, il link più frequente è proprio quello che rimanda a al live stream in inglese (fonte: Twitter Media).

A ben vedere, dunque, una quota significativa del movimento su Internet e sui social network è stato generato proprio da Al Jazeera. Insomma: non è chiaro se Internet faccia bene alla rivoluzione, ma certamente fa bene ad Al Jazeera.

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