WikiLeaks senza WikiLeaks?

Come ho già avuto modo di notare (L’ecosistema di WikiLeaks), il modello messo a punto da Julian Assange funziona nella misura in cui garantisce l’esclusiva ai media tradizionali, affidando loro il compito di fornire la contestualizzazione della notizia. In dicembre Assange ha litigato con il New York Times e il Guardian, “sostituendoli” con il Washington Post e il Daily Telegraph. È poco rilevante capire le ragioni monetarie che eventualmente hanno governato questo cambio della guardia. Ciò che conta è il fatto che WikiLeaks ha bisogno dei media tradizionali, almeno quanto i media tradizionali hanno bisogno di WikiLeaks.

È un tema che ho ripreso oggi nel mio intervento al convegno Quando la notizia fa male: diritto all’informazione ed equilibrio del sistema, organizzato dall’Università degli Studi e-Campus. Qui sotto riporto la presentazione:

Non è sempre stato così. Quando nacque, nel 2006, WikiLeaks inseguiva il sogno del watchdogging alternativo ai circuiti tradizionali. Il modello era quello del wiki: il lavoro di verifica delle fonti e dei documenti veniva affidato alla comunità. Tale approcciovenne sperimentato con scarso successo nel 2006. Un documento ricevuto da un gruppo di hacker cinesi attraverso Tor avrebbe dovuto provare che lo sceicco somalo Hassan Dahir Aweys era l’ispiratore di un complotto e il mandante dell’assassinio di alcuni funzionari giovernativi. Tuttavia il lavoro del crowd non portò a grandi risultati: sull’autenticità della e-mail in cui lo sceicco Hassan dava l’ordine di uccidere restano tuttora molti dubbi. Alla fine del 2007 vene quindi sperimentato il nuovo modello. Il successo definitivo di WikiLeaks arrivò con la pubblicazione di documenti che provarono la corruzione del presidente keniota Daniel arap Mai.

WikiLeaks.org

Oggi diverse testate giornalistiche sembrano attratte dall’idea di fare da sé, cioè di replicare il modello senza WikiLeaks. Vanno in tale direzione esperimenti come l’operazione Al-Jazeera Transparency Unit (AJTU) e il sito SafeHouse del Wall Street Journal. Ipotizzo che tali iniziative avranno scarso successo sia per ragioni di brand (né Al Jazeera né il WSJ sono credibili come servizi di whistleblowing) sia per ragioni concettuali. Come fa notare Hanni Fakhouri, di Electronic Frontier Foundation (WSJ and Al-Jazeera Lure Whistleblowers With False Promises of Anonymity, 7 giugno 2011) non ci si può proporre in modo credibile come piattaforma di whistleblowing senza garantire confidenzialità, anonimato e sicurezza delle comunicazioni. Tale garanzia non è offerta da SafeHouse, che si riserva il diritto di “disclose any information about you to law enforcement authorities”. Né si può escludere, come invece fa SafeHouse nel proprio disclaimer, la violazione di alcuna legge. Il whistleblowing è, per definizione, atto di disubbedienza civile, anche a costo dell’illegalità. Senza violazione della legge oggi non avremmo gli Afghanistan War Logs, né avremmo avuto – nel 1971 – i Pentagon Papers.

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