Rivolta araba e social media

Nel post Più Al Jazeera che Facebook (5 aprile 2011) ho cercato di evidenziare il ruolo preminente del network televisivo del Qatar nel processo di agenda setting che si è manifestato in occasione delle recenti rivolte arabe. In un intervento successivo (Power to the Network?, 6 aprile 2011) ho ripreso e approfondito il tema. A me sembra che Al Jazeera abbia contribuito, ben più dei social media, non solo a determinare il tono delle vicende che hanno sconvolto il Nord Africa e il Medio Oriente da gennaio, ma anche a condizionarne gli esiti.

Ciò significa che i social media non hanno giocato alcun ruolo nella partita? Sarebbe questa una conclusione affrettata. Tuttavia alcune precisazioni sono opportune. Da un lato occorre definire la dimensione reale del fenomeno, ossia misurare l’audience locale e globale che ha fatto riferimento ai social media in occasione delle rivolte arabe. Dall’altro lato è necessario capire l’uso che è stato fatto delle piattaforme sociali su Internet e quindi il loro effettivo impatto politico. Come fa notare Malcolm Gladwell su “Foreign Affairs”, “just because innovations in communications technology happen does not mean that they matter; or, to put it another way, in order for an innovation to make a real difference, it has to solve a problem that was actually a problem in the first place” (An Absence of Evidence, in “Foreign Affairs”, marzo-aprile 2011, p. 153). L’autore è piuttosto scettico in proposito. Rispondendo alle tesi esposte da Clay Shirky sulle pagine della stessa rivista (The Political Power of Social Media. Technology, the Public Sphere, and Political Change, in “Foreign Affairs”, gennaio-febbraio 2011), Gladwell si domanda:

What evidence is there that social revolutions in the pre-Internet era suffered from a lack of cutting-edge communications and organizational tools? In other words, did social media solve a problem that actually needed solving? Shirky does a good job of showing how some recent protests have used the tools of social media. But for his argument to be anything close to persuasive, he has to convince readers that in the absence of social media, those uprisings would not have been possible.

In assenza di riscontri completi, si possono formulare solo alcune ipotesi. Intanto è ipotizzabile che una quota significativa del traffico registrato sui social network e associato alle vicende arabe delle scorse settimane abbia riguardato messaggi di television repurposing, ossia la promozione di contenuti televisivi on demand o in diretta. Tale fenomeno si è evidenziato per esempio nel caso di Twitter duranti i giorni più caldi della rivolta egiziana, anche per effetto dei promoted tweets acquistati da Al Jazeera (si veda il post di Robin Sloan I Want my AJZ, su Twitter Media, 7 febbraio 2011). Ciò è coerente con la tendenza di Al Jazeera a valorizzare in misura crescente il cosiddetto citizen journalism.

Il rapporto fra media arabi e giornalismo grassroot è biunivoco. Da un lato i mezzi di informazione istituzionali sfruttano i contenuti generati dagli utenti (si pensi alla piattaforma Sharek, lanciata da Al Jazeera nel 2008 e del tutto simile a CNN iReport). Dall’altro gli utenti contribuiscono alla diffusione virale dei contenuti generati dai media mainstream, aumentandone la total audience. Secondo Naila Hamdy, ricercatrice presso l’Università Americana del Cairo, l’adozione del citizen journalism da parte dei media arabi va letta nel contesto più generale del lavoro di propaganda e controinformazione che impegna tutti i regimi mediorientali. Questa tendenza è manifesta soprattutto nell’ambito del conflitto arabo-israeliano, che influenza grandemente l’opinione pubblica dell’area. Non a caso in occasione della campagna militare di Israele contro Gaza del dicembre 2008-gennaio 2009 (“Operazione Piombo Fuso”) è stato segnato un punto di non ritorno per quanto riguarda il ruolo della blogosfera, di Facebook e di Twitter: “both sides of the conflict employed extensive use of social media as weapons with which they struggled to win the public opinion war” (Naila Hamdy, Arab media adopt citizen journalism to change the dynamics of conflict coverage, in “Global Media Journal”, 1, 1, 2010, pp. 3-15)

In secondo luogo è importante evidenziare il peso diverso esercitato dai social media nei vari paesi arabi. Prendiamo ancora una volta il caso di Twitter e confrontiamo, a titolo esemplificativo, la situazione egiziana e quella libica. Se misuriamo la popolarità degli hashtag #egypt e #jan25, usati per tracciare i messaggi relativi alla rivolta egiziana, notiamo che essa è massima al Cairo. L’uso di Twitter, insomma, ha riguardato in primo luogo gli egiziani. Non a caso prevalgono i messaggi in lingua araba. Ma anche considerando solo i messaggi in lingua inglese, quelli generati in Egitto sono in larga maggioranza, come dimostra la mappa qui sotto, elaborata da Trendsmap (il dato si riferisce agli ultimi sette giorni).

Tweets con hashtag #egypt
Tweets con hashtag #egypt (fonte: Trendsmap, periodo: 1-6 aprile 2011)

Ben diversa la situazione per quanto riguarda lo hashtag #libya: in questo caso i messaggi in arabo sono un’esigua minoranza, e ben pochi di essi provengono da Tripoli e dintorni. Se poi filtriamo solo i messaggi in inglese, ci rendiamo conto che l’uso di Twitter ha riguardato quasi esclusivamente l’utenza non libica (si veda la mappa qui sotto, anch’essa ricavata da Trendsmap e relativa agli ultimi sette giorni).

Tweets con hashtag #libya
Tweets con hashtag #libya (fonte: Trendsmap, periodo: 1-6 aprile 2011)

Il caso di Facebook è ancora diverso. In Egitto il social network creato da Mark Zuckerberg è relativamente popolare (5 milioni di utenti, 7% di penetrazione) ed è stato usato in modo massiccio durante la “rivoluzione”. Colpisce, per esempio, che la pagina su Facebook delle Forze armate egiziane abbia quasi 900 mila simpatizzanti. Possiamo affermare – confortati in ciò dai numeri – che Facebook ha rappresentato il sistema nervoso del movimento di piazza Tahrir. E difatti si è trattato di un movimento fortemente caratterizzato in senso giovanile e urbano. In Egitto Internet “has worked for youth activists”, come ha osservato Mona Eltahawy sul New York Times (Stepping Up to the Challenge, 25 marzo 2011). Piattaforme come la Coalition of Youth Revolution e il Tahrir Council, molto seguite su Facebook, ma soprattutto la pagina di ElShaheeed (creata dal senior executive di Google Wael Ghonim, forte di oltre un milione di simpatizzanti) rappresentano essenzialmente le giovani generazioni. Ciò non implica però che Facebook abbia rappresentato uno snodo decisivo per le grandi masse egiziane, quelle meno istruite e non urbanizzate, le quali si sono poste in modo più o meno attivo contro il regime di Mubarak. Nulla ci autorizza ad affermare che la cultura anti-Mubarak sia maturata e si sia diffusa attraverso Internet. Tanto meno siamo autorizzati a pensare che l’uso di Facebook abbia reso più forti i gruppi giovanili che hanno animato piazza Tahrir. Anzi, la sensazione è che oggi, passati i giorni dell’entusiasmo, il loro peso politico stia progressivamente scemando.

4 thoughts on “Rivolta araba e social media

  1. Ciao Paolo, sto preparando un elaborato sul rapporto tra social networks e rivolte arabe e mi piacerebbe rivolgerti qualche domanda se fosse possibile. Grazie.

  2. Volentieri. Perché domenica prossima, 25 settembre, non fa un salto al Festival del Diritto di Piacenza? Alle 11 partecipo a un panel su “Agenda setting globale e primavera araba”, in cui saranno presentati diversi dai interessanti. In particolare io mostrerò i risultati di una ricerca che sto conducendo sull’uso dei nuovi media da parte dei cittadini arabi che vivono in Italia. I dettagli dell’evento sono qui: http://www.societapannunzio.eu/blog/934.

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