Newyorkesi duepuntozero

Autoreferenzialità significa “discorso del soggetto su se stesso”. Non mi occupo di psicologia, ma posso supporre che una dose appropriata di autoreferenzialità (self-reference o self-reflexivity) sia funzionale allo sviluppo dell’identità.

Possiamo parlare di autoreferenzialità dei media e di autoreferenzialità nei media.

Nel primo caso – autoreferenzialità dei media – alludiamo al fatto che spesso i media si parlano addosso. Il fenomeno è studiato da tempo ed è collegato alla tendenza dei media a sostituirsi alla società. Ciò è vero in particolare per la televisione, ma riguarda anche altri media. Quando un medium parla di se stesso, lo fa anche per confermare e consolidare il proprio pubblico. In altri termini riduce il rischio di essere compreso solo da un segmento di audience o di dividere l’audience in schieramenti contrapposti. Una trasmissione televisiva di recente successo come Vieni via come me, per esempio, ha una notevole dose di autoreferenzialità: il che rafforza nell’audience la convinzione di essere dalla parte del giusto. Viceversa L’Infedele di Gad Lerner è molto meno autoreferenziale. Il titolo è, in questo senso, fedele al programma. Un libro interessante e recente sul tema è Self-Reference in the Media, curato da Winfried Nöth e Nina Bishara (Berlin, de Gruyter, 2007). I due editor scrivono “self-reference in the media”, ma intendono “self-reference of media”.

Qui però mi interessa la questione dell’autoreferenzialità nei media, ossia l’uso dei media – in particolare di Facebook e altre piattaforme di social networking – per la narrazione del Sé da parte del soggetto, come supporto al processo di sviluppo e di affermazione dell’identità. Parliamo quindi di una questione che andrebbe affrontata da un lato con gli strumenti della psicologia evolutiva (soprattutto se i soggetti sono pre-adolescenti o adolescenti), dall’altro con quelli della psicologia sociale.

È senz’altro interessante osservare le pratiche dei giovani utenti di Internet, in particolare di blog e siti di social networking. In fondo questi giovani, impiegando strumenti nuovi, fanno un lavoro antico: scoprono se stessi attraverso la narrazione di se stessi, costruiscono la propria identità mediante l’autobiografia. Si tratta di uno storytelling fatto di contenuti testuali, ma anche di immagini, preferenze e contatti. Del resto la cosa vale anche per gli adulti. Ciò che siamo su Facebook non si rispecchia solo nei nostri aggiornamenti di stato e nei nostri messaggi. Le foto che pubblichiamo, i video che segnaliamo, gli apprezzamenti che esprimiamo per i post altrui, le cause che sposiamo, gli utenti che compongono la nostra rete di amicizie: tutto questo contribuisce a comporre il mosaico della nostra identità online.

C’è quindi una buona autoreferenzialità, intesa come capacità del soggetto di narrarsi attraverso il medium. L’autoreferenzialità diventa cattiva quando si configura nei termini di separazione dal mondo o – per meglio dire – di sostituzione dell’esperienza del mondo con l’esperienza del medium. Quando poi questa sostituzione assume caratteri patologici ed è associata a dipendenza, diventa una forma di disagio mentale. Oggi si parla molto di internet addiction, ma esiste anche una television addiction. Proprio in questi giorni il noto settimanale Time Out New York apre con un servizio dal titolo provocatorio: Is Social Media Bed for NYC? L’autore del servizio, Sharon Steel, segnala un rischio reale. Gli abitanti di New York – riconosciuta come una delle metropoli più intense e vibranti del mondo – trascorrono sempre più tempo immersi in un mondo virtuale che oscura la straordinaria bellezza della loro città. Steel allude al bisogno compulsivo dei newyorkesi 2.0 di documentare le proprie vite attraverso i media sociali: Facebook, ma anche Twitter, Foursquare e altri. Un’autentica fissazione per il personal broadcasting (autoreferenzialità, diremmo noi) che ha una conseguenza non voluta:

We’re shifting the focus away from the city’s culture and arts scene, and onto ourselves. We’ve become the stars of our own digital shows, in which keeping track of our hyperbolic NYC lives has become the hyperbole itself. This is changing the way that we consume our city—we’re increasingly taking it in secondhand or filtering it through our own editorial lens, watching the most exciting part of a live show via a three-inch screen, distracting ourselves from an exquisite dessert because we’re framing it for a Facebook post, or boiling down the best moments of our night to 140 characters. We, who pride ourselves on leading the creative charge, are becoming tourists in our own lives, in our own city.

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