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Tutta colpa della Storia

Giorni fa mi è capitato di assistere a un dibattito mal combinato ma a suo modo interessante, in occasione dell’incontro che si svolgeva al Cox18 di Milano per presentare il romanzo In territorio nemico (Minimum Fax, 2013). Come noto, l’opera è figlia di 115 autori. Questi hanno lavorato applicando il metodo della Scrittura Industriale Collettiva, o SIC, di cui ho già parlato qui. All’incontro milanese ne erano presenti quattro o cinque. Dal pubblico mi sarei atteso domande sui caratteri della loro esperienza letteraria. Invece gli autori sono stati messi alle strette da una questione diversa, che ha monopolizzato quasi tutta la discussione. A sollevarla è stato Marco Philopat, esponente piuttosto noto della cultura antagonista e underground italiana. Philopat si è incaricato di spiegare, un po’ tortuosamente, che le ragioni del racconto devono sottomettersi a una missione storiografica, e questa a una lettura ideologica. E parlo proprio di subordinazione, non di dialettica. Anche se sono sicuro che egli contesterebbe questa mia interpretazione e chiamerebbe in causa Celine e la “torsione della realtà”.

Va detto che gli autori, cui in quella circostanza è andata tutta la mia simpatia, se la sono cercata. La scelta di scrivere un romanzo storico li ha portati davvero in territorio nemico, quello in cui la storia deve fare i conti con la Storia, ossia la finzione con le interpretazioni storiografiche. E se, per colmo di hybris, l’esercizio di applica a un dossier ancora dolente come quello della Resistenza, il rischio di scontrarsi con il furore di qualcuno è più che concreto. Qualcuno che non si aspetta una storia, appunto, ma la Storia. Anzi: la Storia che ha già letto.

Al Cox18 abbiamo dunque sentito dire da Philopat che In territorio nemico pecca di credibilità per il fatto di non valorizzare adeguatamente la “vera” Resistenza: la quale non è stata – pare di comprendere – quella dei partigiani delle montagne, ma quella combattuta dai GAP per le strade di Milano. Di più: il romanzo degli scrittori industriali collettivi non sarebbe attendibile perché elude il tema della violenza nella sua dimensione valoriale. Ciò che rende sospetto In territorio nemico agli occhi di Philopat è dunque questo suo presunto allinearsi alla chiave di lettura retoricheggiante sponsorizzata dal regime repubblicano fin dall’immediato dopoguerra, nell’intento “evidente” di rimuovere i contenuti scomodi della Resistenza.

Inutile il tentativo degli autori presenti al Cox18 di giustificarsi, rivendicando il fatto di avere voluto raccontare una storia, piuttosto che scrivere la Storia. D’altronde non credo che al loro posto avrebbe avuto migliore fortuna un Elio Vittorini, se avesse dovuto presentare Uomini e no, il quale pure ha un gappista milanese per protagonista. Sospetto che anche la sua storia sarebbe stata giudicata proco credibile: troppo problematica, tentennante e piena di dubbi, riguardo al combattere e al morire. Come dire? Troppo letteraria. L’idea che l’uomo sia più uomo dove è più debole, come scrive Vittorini, non convince. Tanto meno potrebbe piacere, mettiamo, quel piccolo capolavoro che è Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi, dove si va in montagna senza spiegare perché: per organizzare una rivolta armata, per resistere passivamente agli invasori oppure per badare “soltanto a togliersi dal folto della mischia”.

3 thoughts on “Tutta colpa della Storia

  1. scusa sembra un commento scritto senza leggere il libro, dato che 1 delle 3 storyline si svolge PROPRIO tra i gap milanesi…

  2. Paolo
    Solo ora collego la tua persona fisica con questo blog – al Cox non avevo capito che tu eri tu. Complicate queste conoscenze in rete 🙂

    Devo dire che non mi sono sentito “messo alle strette” da Philopat, non so gli altri autori presenti… Mi è parso molto attento nel presentare la sua posizione come una posizione personale – una mancanza che la lettura del libro aveva lasciato in lui – un desiderio che la narrazione prendesse una certa piega. Una questione di gusti, insomma, più che una critica obiettiva.

    Ma a dire la verità, non credo di aver ben capito qual era la sua posizione. Sarà che non mi è chiaro quali siano i suoi punti di riferimento sulla “dimensione valoriale della violenza”. Adele, la GAPpista del libro, ha effettivamente un approccio alla pratica del “terrorismo” che è tutto egotico, tutto all’interno di una concezione individualistica della giustizia, per cui concepisce il suo agire non tanto come “fare giustizia”, ma come “farsi giustizia”. (Anche se nel quadro di una ben definita appartenenza di classe, che è quella della classe operaia.) Insomma: Adele somiglia più a Beatrix Kiddo che a Giovanni Pesce. Non so se è questo ad aver deluso le aspettative di Marco rispetto al personaggio. Attendo lumi.

    @lucia: No, no, tutti i partecipanti alla discussione avevano letto il libro; e infatti l’appunto di Philopat non era rivolto all’assenza di un racconto del gappismo, ma all’assenza di un certo sviluppo del racconto sul gappismo comunque presente in ITN.

  3. Grazie per il tuo commento, Gregorio. Magari hai ragione tu e quella di Philopat era solo una questione di gusto. Però io ci ho letto anche una certa smania ideologica. L’unica cosa certa è che, da sessant’anni, scrivere della Resistenza risulta impresa assai ardua. Lo hanno imparato a proprie spese Elio Vittorini, Cesare Pavese e Italo Calvino. A Lucia confermo invece di avere letto In Territorio Nemico. Ho già pudore a parlare delle cose che conosco. Mai oserei farlo di quelle che non conosco.

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