Occupy Wall Street

Rottamare la democrazia?

Sarà forse un classico caso di eterogenesi dei fini, ma la democrazia si trova a essere oggetto di una serie di malevoli attenzioni. Vedo tre direttrici principali di attacco, concomitanti: l’opzione tecnocratica (“non possiamo permetterci il lusso di scegliere, perché i mercati non lo tollerano”), quella carismatico-populista (“si fa quello che dice il leader, specie se le spara grosse”) e quella anarco-libertaria (“la democrazia occidentale ha fallito, perché si basa sulla rappresentanza”). Tralascio le prime due dimensioni del problema e mi concentro sulla terza, anche se alcuni attacchi alla democrazia si presentano in forma ibrida. Il grillismo, per esempio, mescola la retorica della democrazia diretta con il linguaggio populistico.

Il grillismo, appunto. Nell’ultima settimana il dibattito si è infiammato, ma in realtà prosegue da oltre un anno. Quella incarnata dal Movimento 5 Stelle è una nuova esperienza di auto-organizzazione, di democrazia diretta e “dal basso” abilitata dalla Rete? O è piuttosto una subdola manipolazione del consenso che ha per vittime i militanti stessi, ai quali non si chiede di sviluppare un autentico pensiero critico, ma di accogliere parole d’ordine preconfezionate dal leader?

In un pamphlet in libreria da pochi giorni il giornalista Federico Mello esprime un giudizio esplicito e senza repliche (Il lato oscuro delle stelle, Imprimatur, Reggio Emilia, 2013). Mello parla di “dittatura digitale di Grillo e Casaleggio”, di dinamiche chiuse e verticali, di epurazioni e censure. La sua presa di posizione è significativa. Mello, infatti, ammette di essere fra coloro che hanno creduto alle proprietà taumaturgiche della Rete. Ma l’esperienza di Grillo ha trovato anche qualche endorsement nobilitante. È il caso di Paolo Becchi, ordinario di Filosofia del Diritto all’Università di Genova, il quale si è speso recentemente a favore del Movimento 5 Stelle. Becchi ha sottolineato la sua portata rivoluzionaria, fondata sulla partecipazione attiva di tutti i cittadini, la fine dei partiti e l’antiparlamentarismo. Per Becchi la vera democrazia è quella diretta. Ma davvero è possibile sostituire la classe politica con un network di cittadini online? La sensazione è che il dibattito cui assistiamo in Italia non vada oltre il livello della pubblicistica provinciale. Ed è male, perché invece il tema merita grande attenzione.

La narrazione della democrazia elettronica parte da lontano. Anche trascurando l’utopia cibernetica di Norbert Wiener, e ancor prima il contratto sociale di Jean Jacques Rousseau, si deve quanto meno fare riferimento alla prima generazione delle comunità virtuali, che si svilupparono in California negli anni Settanta e che diedero origine a Internet. Si trattava di un movimento animato da un’ideologia libertaria e dalla convinzione che la tecnica liberasse l’individuo e accrescesse le sue competenze. La fiducia nella tecnica, tipicamente americana, è il motivo conduttore di questo e dei successivi movimenti. Negli anni Novanta si registrò una seconda ondata di entusiasmo, che coincideva con un’estensione della base sociale di Internet: la Rete diventava usabile non solo da hacker e ingegneri informatici. Oggi assistiamo a un ulteriore allargamento di questa base. Basti pensare al miliardo di utenze (ma molte meno quelle attive) raggiunto da Facebook. Siamo all’ideologia del Web 2.0 e del potere dell’utente, che autori come Geert Lovink e Jonathan Zittran si sono incaricati di smascherare.

Ma, al di là della retorica, quali sono le esperienze concrete di democrazia diretta supportate dalla Rete? Quelle citabili sono confinate a comunità di dimensioni relativamente modeste, formate da individui con una fortissima motivazione, competenze altrettanto forti e un orientamento tendenzialmente anticonformista. Ci sono poi casi di applicazione della democrazia diretta al di fuori di contesti propriamente comunitari, per esempio all’interno di partiti o movimenti politici. Fra gli esempi più significativi non includerei il Movimento 5 Stelle, dove l’esercizio della democrazia interna mi sembra decisamente parziale e intermittente. Meritano semmai la nostra attenzione l’esperienza del Partito dei Pirati (Germania) e quella del movimento Occupy Wall Street (Stati Uniti).

Il Partito dei Pirati ha adottato un modello ibrido, definito come democrazia liquida. In sintesi l’idea è che di volta in volta ciascun cittadino possa decidere se partecipare direttamente, attraverso il voto, alle scelte sulle singole opzioni, oppure delegare un altro cittadino. La delega è reversibile, nel senso che può essere revocata in qualsiasi momento. All’interno del partito questo processo è supportato da Liquid Feedback, una piattaforma software open source che permette non solo di gestire il meccanismo del voto e della delega, ma anche i flussi di comunicazione fra votanti e promotori delle opzioni sottoposte a voto. Da notare che anche il Movimento 5 Stelle ha preso in considerazione l’impiego di Liquid Feedback, optando però alla fine per una tecnologia diversa – Airesis – prodotta in Italia.

Il movimento Occupy Wall Street, nato nell’estate del 2011 sull’onda delle proteste le sperequazioni prodotte dai comportamenti delle grandi istituzioni finanziarie globali, è l’altro caso di studio interessante. Anche Occupy Wall Street pratica al proprio interno forme spinte di democrazia diretta. Le decisioni vengono assunte solo se trovano il consenso di almeno due terzi dei militanti e se nessuno esercita il proprio veto per motivi di principio. Ciò rende il processo decisionale del movimento lento e defatigante. L’antropologo americano David Graeber, che può essere considerato il leader ideologico di Occupy Wall Street, ha sviluppato una critica radicale alla democrazia occidentale e, nello specifico, alla sua natura rappresentativa. Il suo saggio There never was a West: or, Democracy emerges from the spaces in between (2007) è stato tradotto in italiano solo lo scorso anno da Elèuthera. Secondo Graeber la rappresentanza si traduce in un’esperienza gerarchica e disegualitaria. A tale forma di democrazia l’autore contrappone esperienze diverse, maturate in contesti lontani da quello occidentale e basate sull’auto-organizzazione. Ecco dunque che la tentazione anarco-libertaria e l’utopia della democrazia diretta cercano di trovare nella riflessione di Graeber un nuovo fondamento teorico. A partire, si badi, da una considerazione di ordine storico difficilmente contestabile. Del resto uno dei maggiori teorici del diritto del Novecento come Hans Kelsen ha osservato che “la lotta condotta contro l’autocrazia verso la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX fu, in essenza, una lotta per il parlamentarismo.” (La democrazia, Il Mulino, Bologna, 1998, 73).

E così torniamo al punto di partenza: l’attacco alla democrazia rappresentativa sferrato dai sostenitori delle nuove forme di democrazia diretta abilitate da Internet. In questi giorni in molti hanno ricordato la riflessione di Norberto Bobbio, il quale già nel 1984 scriveva, forse con qualche titolo in più rispetto al già citato Becchi:

L’ipotesi che la futura computer-crazia, com’è stata chiamata, consenta l’esercizio della democrazia diretta, cioè dia a ogni cittadino la possibilità di trasmettere il proprio voto a un cervello elettronico, è puerile. A giudicare dalle leggi che vengono emanate ogni anno in Italia il buon cittadino dovrebbe essere chiamato a esprimere il proprio voto almeno una volta al giorno. L’eccesso di partecipazione, che produce il fenomeno che Dahrendorf ha chiamato, deprecandolo, del cittadino totale, può avere per effetto la sazietà della politica e l’aumento dell’apatia elettorale. Il prezzo che si deve pagare per l’impegno di pochi è spesso l’indifferenza di molti. Nulla rischia di uccidere la democrazia più che l’eccesso di democrazia. (Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984, p. 22)

Di seguito i materiali presentati durante la seconda lezione del corso di Comunicazione Digitale e Multimediale, dedicata agli argomenti contenuti in questo post:

 

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