Reti egocentriche

Ritorno sul tema dell’autoreferenzialità nei nuovi media, affrontato nel post Newyorkesi duepuntozero, perché mi sono stati chiesti da più parti riferimenti bibliografici. Ecco dunque qualche spunto.

Sulle pratiche autoreferenziali dei teenager nei new media si può vedere David Buckingham, Youth, Identity, and Digital Media, Cambridge, Mass., MIT Press, 2008. Un altro riferimento importante è costituito dal recente volume A Networked Self: Identity, Community, and Culture on Social Network Sites, a cura di Zizi Papacharissi (New York, Routledge, 2010). Da vedere, in particolare, il contributo di Robert Larose, JungHyun Kim e Wei Peng sulle forme di dipendenza e le pratiche compulsive nei social network (pp. 39-58 del volume citato).

Più in generale le categorie che, a mio avviso, meglio spiegano come funzionano i processi identitari in rete sono due: networked individualism e virtual togetherness.

Per il primo concetto – networked individualism, appunto – rimando a Barry Wellman e ad altri studiosi come Jeffrey Boase e Wenhong Chen. Di Wellman suggerisco di leggere Physical place and cyber place: The rise of personalized networking, in “International Journal of Urban and Regional Research”, 25 (2), 2001, 227–252. Importante anche il saggio di Wellman e altri The social affordances of the Internet for networked individualism, in “Journal of Computer Mediated Communication”, 8 (3), 2003. In estrema sintesi  Wellman ci dice due cose. In primo luogo che al centro dei social network elettronici non ci sono tanto i gruppi o le comunità, quanto gli individui. Nelle società tradizionali le relazioni sono group oriented e i confini fra i gruppi risultano ben definiti. Viceversa nelle networked societies i confini sono più permeabili e si assiste a uno spostamento del focus dalle relazioni orientate al gruppo alle relazioni centrate sull’individuo. Wellman parla in questo senso di “reti egocentriche” (egocentric networks). La seconda osservazione di Wellman è relativa al fatto che Internet non è un unico medium. Internet è un substrato che veicola informazione in formato digitale. Sopra questo substrato si collocano i diversi servizi di Internet: posta elettronica, chat, blog, piattaforme di social networking ecc. Ciascuno di questi servizi è un medium e abilita relazioni sociali diverse rispetto agli altri.

Per quanto riguarda invece il concetto di virtual togetherness, rimando a Maria Bakardjieva e al suo fondamentale Internet Society: The Internet in Everyday Life (London, Sage, 2005). Gli studi della Bakardjieva sono rilevanti perché mettono in discussione la dicotomia fra mondo fisico e mondo virtuale postulata da altri ricercatori. Penso in particolare a Shelly Turkle e al suo famoso Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, (New York, Simon & Schuster, 1995). A differenza di quanto sostenuto dalla Turkle, secondo la Bakardjieva non è possibile separare l’esperienza che si svolge al di là dello schermo da quella vissuta al di qua. È chiaro che, in questo senso, sembra difficile parlare di autoreferenzialità intesa come separazione fra vita reale e dimensione virtuale. La Bakardjieva recupera poi il concetto foucaultiano di “tecnologie del Sé”, applicandolo a strumenti come Facebook. Secondo Michel Foucault le tecnologie del Sé sono tutte le tecniche e le pratiche che consentono da un lato al soggetto di costituirsi e di situarsi all’interno di un sistema di potere, dall’altro di modificare e condizionare il Sé. Su questo rimando all’intervista Truth, Power, Self, in Luther H. Martin, Huck Gutman, Patrick H. Hutton (a cura di), Technologies of the Self: A Seminar with Michel Foucault, Amherst, The University of Massachusetts Press, 1988, pp. 9-15. Mi sembra che, ancora una volta, tutto questo abbia in qualche modo a che fare con il problema dell’autoreferenzialità.

Tuttavia si può parlare di autoreferenzialità anche con riferimento ad altri fenomeni, caratteristici della Rete e ormai oggetto di qualche studio abbastanza approfondito. Mi riferisco al cosiddetto effetto echo-chamber e al narrowing. Fra le altre ricerche,  segnalo quelle di Cass R. Sunstein, autore di libri come Republic.com 2.0 (Princeton, Princeton University Press, 2007) e  On Rumors: How Falsehoods Spread, Why We Believe Them, What Can Be Done (Farrar, Straus and Giroux, 2009). Ne avevo già fatto cenno nel mio post Sazi e disinformati. Sull’effetto echo-chamber si può guardare anche Lee Rainie, How the Internet is Changing Consumer Behavior and Expectations, discorso tenuto al SOCAP Symposium a Washington, DC, il 5 settembre 2006 (reperibile qui) e Clive Thompson, Manufacturing Confusion. How more information leads to less knowledge, “Wired”, 17 febbraio 2009, p. 38 (reperibile qui).

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