Neuroscienze e realtà virtuale

“Matrix è il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità”, dice Morpheus a Neo (il pirata informatico Thomas Anderson) nel film culto di Andy e Larry Wachowski. E se la matrice non fosse il prodotto software di macchine intelligenti? Se la matrice fosse il prodotto del nostro cervello? Il recente, bellissimo saggio di Enrico Bellone Qualcosa, là fuori. Come il cervello crea la realtà (Torino, Codice Edizioni, 2011) ci induce a considerare il valore delle neuroscienze come strumento di riflessione epistemologica.

Il tema è quello del rapporto fra ciò che i nostri sensi percepiscono e la cosa in sé. Tema antico come la filosofia, ma rivisitato nella nostra epoca in bilico fra apocalissi postmoderna ed ebrezza tecnologica. Guardare il mondo significa collocarsi in un processo di selezione, messa in prospettiva, taglio e scarto. Ogni sguardo è inclusione di qualcosa ed esclusione di qualcos’altro, e già questo significa manomettere la realtà. Guardare, insomma, vuol dire sovrapporre alla realtà il proprio giudizio.

Possiamo comunque affermare che la realtà, intesa come “ciò che sta fuori” (fuori di noi, fuori dalla macchina fotografica, fuori dal computer), sia il punto di partenza di questo processo? Dipende. Le neuroscienze – spiega Bellone – ci inducono a ritenere che “là fuori” non ci siano forme e colori. Forme e colori (così come odori, suoni, caldo e freddo ecc.) non sono proprietà del mondo, ma costruzioni della nostra mente. L’immagine di un paesaggio non è qualcosa che “entra” in noi. Tale immagine è il prodotto dei nostri meccanismi cognitivi, è un allestimento del nostro cervello. “Là fuori” c’è qualcosa di inaccessibile: un universo silenzioso, informe e grigio, il quale contiene molecole, atomi e campi elettromagnetici, ovvero cose che non hanno, in sé, colore, odore, sapore e temperatura. L’esperienza del mondo è una finzione della coscienza.

In questo senso la realtà virtuale – quella generata dal software, di cui ci parla Lev Manovich in Software culture – non va intesa solo come alternativa alla realtà fisica, ma come metafora della nostra condizione biologica. Il lavoro del nostro cervello non è così diverso da quello che compie il software. L’uno e l’altro si danno da fare per inventare un mondo che non c’è. Ciò che noi vediamo non è meno artificiale di ciò che il software crea. Mentre il reale, ciò che sta fuori, è un deserto, come ci ricorda il Morpheus di Matrix.

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