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Leucò: testo e voci

È legittimo “fare a pezzi” un’opera letteraria, come i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, riducendola a una moltitudine eterogenea e contraddittoria di frammenti, prodotti da lettori a propria volta eterogenei? Ce lo domandiamo dopo tre mesi di frenetico cinguettare su Twitter, noi della comunità di #Leucò che su questa operazione abbiamo scommesso molto. Se lo domanda Marina Pierani, in un post recente (Riflessioni sul progetto Leucò) che mi spinge a scrivere queste righe. In S/Z (Paris, Seuil, 1970) Roland Barthes propone di intendere la lettura come un lavoro di scomposizione. Il testo viene ritagliato in unità o blocchi, denominati lessie. Ciascuna lessia è un insieme di tre o quattro sensi. Che cosa resta dunque del testo di Pavese, a conclusione del nostro progetto? Una nebulosa indecifrabile di lessie, appoggiate sul cadavere dell’opera pavesiana?

Tento una risposta. Il terreno di incontro fra autore e lettore non può che essere il testo. Esso è attesa e invocazione. Il testo è lì, sospeso: aspetta che il lettore se ne faccia carico, implora di essere – per dir così – riscritto attraverso la lettura. L’approccio può essere di tipo filologico, finalizzato alla restituzione del testo nella sua lezione autentica e alla ricerca dei suoi debiti; può essere di tipo semiotico o strutturalista, basato cioè sulla convinzione che il testo sia un sistema organico e coerente di elementi funzionali; può essere di tipo decostruttivista, ossia fondato sull’opposta visione del testo come un tutto che non si tiene, come un tessuto tumorale con il suo esorbitante surplus di senso. In ogni caso il testo è un’organizzazione di elementi che – incalzati dal lettore – lavorano. Farlo a pezzi è operazione tutt’altro che arbitraria. È un modo per entrare in relazione con questi elementi, per esplorarne il lavoro, la funzione o la colpa. Non conosco altro modo di leggere.

Twitter aiuta? Sì, almeno in tre sensi. In primo luogo ci incoraggia a esplorare la dimensione micro del testo – la singola parola, il sintagma, la frase – a sollecitarla. A questo livello scopriamo che ogni lemma (ogni “pezzo”) ha molte cose da dirci, se sappiamo concentrarci su di esso. In secondo luogo, quando la lettura si muove sulla dimensione macro – ciascun dialogo preso nella sua interezza, o addirittura l’apparato di ventisette dialoghi letto come sistema – il vincolo dei 140 caratteri ci obbliga alla sintesi, che non è perdita ma scavo alla ricerca dell’essenziale. In terzo luogo – ed è questo l’aspetto potenzialmente più interessante, ma ancora tutto da esplorare – #Leucò apre a una dimensione collettiva dell’esperienza: leggere attraverso le letture degli altri.

Semplificando assai, dicevo che l’approccio al testo può essere di tipo filologico, strutturalista o decostruttivista. I primi due cercano il senso del testo, il terzo lo falsifica. I primi due postulano un’economia del senso, il terzo deve fare i conti con l’eccesso di senso che sconfina fatalmente nell’indecifrabile. A me capita di trovarmi al crocevia fra questi paradigmi e di non riuscire a schierarmi in modo netto.

Se dico che il testo è una realtà scomponibile in unità elementari, in relazione fra loro e dotate di funzione significante, pago il mio debito alla critica strutturalista. Un debito contratto trent’anni fa alla scuola di Maria Corti e Cesare Segre. Da loro ho imparato tre cose: 1) a riconoscere il primato del testo nei fatti letterari: 2) a pensare il testo come una rete di relazioni; 3) a scommettere sulla dotazione di senso della struttura testuale. In definitiva per me calarsi nella struttura di un testo è un cammino di conoscenza, “è una confutazione della facile drammaturgia dell’assurdo” (Jean Starobinski, in Strutturalismo e critica, a cura di Cesare Segre, Il Saggiatore, Milano, 1985, p. 34).

Il paradigma strutturalista è alla base di una ricca tradizione di studi semiologici e di critica testuale, che ha attraversato una stagione ineguagliabile della cultura non solo europea. Tale stagione appare per molti versi conclusa. Oggi sarebbe ingenuo dichiararsi “strutturalisti”, specie se tale dichiarazione fosse fatta per ragioni sentimentali. Bisogna però distinguere fra uno strutturalismo ontologico e uno strutturalismo metodologico. Il primo, in fondo, non è mai passato nella vulgata italiana. Già 45 anni fa Umberto Eco lo confutava, entrando in polemica con Lévi-Strauss e Lacan (La struttura assente, Bompiani, Milano, 1968). Che cosa ci separa in modo inesorabile dal discorso strutturalista ontologico? Direi principalmente due cose: 1) il rifiuto di una visione fondazionista, basata sull’identificazione di una Struttura Ultima (la quale invece, come osserva Eco, è “assente”); 2) il riconoscimento di un eccesso di senso del testo, che non si giustifica con la sua struttura.

Il primo punto ci rimanda alla consapevolezza che eliminare ogni forma di giudizio soggettivo nelle discipline umanistiche è impossibile. Questa pretesa dello scientismo strutturalista fu una hybris, come dimostrò Michel Foucault. Ma è il secondo punto a interessarmi maggiormente. Quando parliamo di “eccesso di senso”, alludiamo alla sur-signification di Jacques Derrida, al fenomeno per cui il testo ha una carica di significazione che nessuna lettura è in grado di risolvere. È il passaggio dall’interpretazione all’ermeneutica.

Nell’esperienza di #Leucò ho visto manifestarsi entrambe le tendenze. Da un lato il nostro progetto su Twitter ha convogliato uno sforzo filologico e interpretativo davvero cospicuo. Tanto più notevole se pensiamo che è stato profuso da un pubblico di non professionisti, Li definirei – includendomi nella categoria – “dilettanti militanti”. Dall’altro lato #Leucò è stato il trampolino di lancio per un esercizio di connotazione infinita, nel quale ogni lettura appariva non solo lecita, ma in qualche modo plausibile.

2 thoughts on “Leucò: testo e voci

  1. Letto e riletto, ammirata. Poi arrampicatami sulla scala (contravvenendo al filiale divieto) per riprendere La struttura assente dalla libreria. Subito rimessa al suo posto. Non è tempo di ri-letture, come stampelle esterne. Preferisco ascoltarmi e via… through the barricades! (Spandau ballet)
    Raccolgo le idee e te le sottopongo al più presto.
    ciao e grazie,marina

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